Tesori e allarmi dal pianeta Terra [di Leandro Muoni]

ugo collu

“Benedetta sii Tu, universale Materia,/Durata senza fine, Etere senza sponde,/triplice abisso delle stelle, degli atomi e/delle generazioni,/Tu che eccedendo e dissolvendo le/nostre anguste misure ci riveli le dimensioni di Dio” (Pierre Teilhard de Chardin, Inno alla Materia).

“O solenne corteo dei magnifici soli,/annodate e sciogliete le vaste masse d’oro,/dolcemente, tristemente, al suono/di gravi musiche, molto lentamente/portate il lutto per la sorella che dorme” (Jules Laforgue, Marcia funebre per la morte della Terra)

Il libro che intendiamo proporre all’attenzione dei lettori nasce, nell’ambito della moderna impostazione ambientalistica, con i connotati di una spiccata specialità e originalità nel quadro dell’attuale produzione letteraria isolana peraltro abbastanza ricca in materia (ci piace qui per inciso richiamare alla memoria ed evidenziare i testi di alcuni anni fa, pur essi “singolari”, di due valorosi e atipici ambientalisti sardi scomparsi prematuramente: “Ecologia controversa di Sardegna”, dell’ecologo Renzo Pirino, e “Il noce. Scritti sull’isola rinnegata” dello scrittore Giorgio Todde), Il  volume cui facciamo riferimento reca impressa nelle sue pagine anche una apprezzabile nota distintiva in rapporto all’odierno panorama editoriale italiano.

Si tratta del recente saggio di Ugo Collu  edito da Cangemi nella prestigiosa collana “Nuovo Millennio”, diretta da Francesco Mercadante, e intitolato “La Terra in quarantena. Tesori e allarmi”.

L’opera, che vede la luce con una bella immagine di copertina elaborata graficamente da Giorgio Dettori, è dedicata alla disamina filosofico-ecologica, con venature teologiche, degli elementi fondamentali della Natura o dell’Essere: Terra, Acqua, Fuoco. A queste tre manifestazioni della Materia si deve aggiungere il quarto costituente dei quattro elementi naturali della tradizione presocratica, l’Aria, col quale si completerà la serie del libro che l’editore italiano è intenzionato a pubblicare anche in Francia.

Ugo Collu è personalità culturale ben nota e apprezzata non solo in Sardegna. Da presidente della Biblioteca “Satta” di Nuoro è stato lungimirante direttore e organizzatore nel capoluogo barbaricino di fondamentali convegni di studio di portata nazionale su Sebastiano Satta, Grazia Deledda e Salvatore Satta, che hanno fatto il punto sulla moderna valutazione critica di questi autori capitali per la storia letteraria del primo e secondo Novecento sardo e più generalmente italiano.

Da presidente della Fondazione “Nivola” a Orani si è prodigato nel promuovere, anche attraverso l’impulso culturale del relativo museo, la conoscenza del retroterra mitologico, antropologico ed estetico di un ulteriore genio artistico isolano del secolo scorso, acquisendo ai fasti dell’arte regionale, nazionale e internazionale l’opera dell’eminente scultore di Barbagia amico di Le Corbusier e Saul Steinberg, emigrato in America e qui inventore della tecnica plastico-decorativa e architettonica del sand casting, più noto negli Stati Uniti che in Italia: Costantino Nivola.

Per questa operosa e assidua attività di ricerca, storicizzazione, contestualizzazione e promozione culturale dei grandi spiriti-guida barbaricini e della loro complessa identità, a Ugo Colllu è stato recentemente e lodevolmente  conferito il premio “Per amore di una città”, in quanto benemerito della Città di Nuoro.

“La Terra in quarantena. Tesori e allarmi” si compone di tre succosi saggi che scandagliano il volto della Natura nelle sue forme costitutive, con riferimenti multipli alla letteratura, alla teologia, alla simbologia, alla fenomenologia, all’ecologia, all’economia politica e all’etica.

In un momento storico segnato dal precario assetto naturale del nostro pianeta e più in particolare della biosfera e della società umana dal punto di vista economico, demografico e geopolitico, sembra utile anzi necessario operare un esame di coscienza di respiro universale che approfondisca la questione ecologica, il problema climatico, delle scelte culturali, politiche, sociali, ambientali e delle risorse energetiche. Insomma, una ricognizione onnicomprensiva, a tutto tondo, degli elementi del nostro habitat naturale e umano, di quella cioè che è stata autorevolmente definita la “Casa comune” coi suoi fondamenti e le sue radici: “Ogni nostro ritorno alle origini – puntualizza Ugo Collu – si connette a due archetipi. La Casa diventa Corpo materno e il Corpo della Madre diventa Casa”.

Il discorso del nostro autore spazia dal livello naturalistico a quello culturale, da quello fenomenologico a quello psicologico: in ciò memore della lezione e in qualche maniera emulo della prospettiva investigativa del filosofo della scienza attivo nei primi decenni del Novecento, Gaston Bachelard, che aveva elaborato teorie illuminanti intorno alle semantiche  psicoanalitiche degli elementi.

I riferimenti semantici e i rimandi culturali procedono dai primordi della speculazione filosofica e dalle citazioni delle Sacre Scritture e proseguono coi temi più intrinsecamente sensibili agli argomenti e alle tesi della sostenibilità ambientale, non separati dalle responsabilità imputabili all’attuale modello egemonico di sviluppo economico-socio-politico a livello planetario.

E’ sottesa a questa cornice una certa contrapposizione del mondo del mito e del simbolo, astorico, premoderno, sede naturale delle società arcaiche, posto a rispettoso contatto dell’ambiente e del bene comune della terra, sostanzialmente incontaminato (condizione riservata dalla coscienza postmoderna alla natura selvaggia circoscritta alle “aree wilderness”); una certa contrapposizione – dicevamo – di quel mondo  al volto brutalizzato e alla devastazione del presente.

Un presente dall’atmosfera ormai inquinata rispetto all’aria, allo “spirabil aere” della città ideale, ormai sempre più spesso ipertrofica e geneticamente modificata in megalopoli o babilonia dell’”urbanesimo reale”, non più liberatrice e cultrice di spiriti liberi bensì dominatrice e fagocitatrice, a trazione globalizzata, ridotta a infernale ingranaggio del consumo, della deiezione e dello scarto.

A dire il vero, il mondo degli elementi naturali e dei risvolti mitici e simbolici, tipici delle civiltà del passato, è tratteggiato in queste pagine non tanto come vera e propria contrapposizione quanto piuttosto come contrappunto alle emergenze e alla crisi del “sistema Terra”, con funzioni di intermezzo o interludio rispetto agli argomenti e alle analisi di rilevanza ecologica sulle “malattie” e sulla “quarantena” del Pianeta affrontati nel libro.

A queste preoccupanti, spesso disastrose evidenze sintomatologiche e patologiche, si accompagna e s’intercala un richiamo evocativo, sempre vigile e lucido, non ingenuamente nostalgico della bellezza del Creato ormai violata e della sacralità di un tempo perduto (sostanziato bensì di pause liriche, memoria, idillio, ascesa salvifica delle cime), che ricorda per verisimile associazione simbolica l’allarmata consapevolezza – “tesori e allarmi” per l’appunto – delle “apocalissi culturali” e della “fine del mondo” descritte sul piano antropologico da Ernesto De Martino.

Questa ipotesi interpretativa è rafforzata in qualche modo dalla funzione contrappuntistica che esercitano le parentesi narrative intercalari di natura autobiografica presenti nel libro, le quali svolgono un ruolo formativo o costitutivo  della memoria. Esse però non vanno confuse con la tendenza letteraria dei narratori sardi del recente passato –  ancora oggi da qualcuno praticata ma ormai surclassata dalla nouvelle vague dei giallisti – a privilegiare il Bildungsroman (ovvero il “romanzo di formazione”) a sfondo esperenziale e psico-sociologico. Infatti qui si esprime piuttosto il contrasto dialettico, filosofico e teologico, tra natura e cultura, scienza e coscienza, ragione e fede. Tra catastrofe e salvezza, morte e trasfigurazione.

L’autore procede dalla dicotomia cartesiana di spirito e materia (res cogitans e res extensa), che sarebbe all’origine della moderna dicotomia parallela dell’attività dell’uomo e della salute e manutenzione del Pianeta, per giungere alla certificazione storica che “La svolta della Terra da risorsa ‘comune’ a risorsa ‘economica’ (di pochi) ha avuto la sua legittimazione filosofica con l’Età moderna, velocemente diffondendosi sul piano politico-giuridico e nella comune mentalità”.

Il fenomeno si sviluppa di pari passo coi principi dell’Ottantanove, con l’affermazione della borghesia, della libera iniziativa in ogni campo, dell’economia di mercato e con lo sfruttamento intensivo delle fonti energetiche della superficie e del sottosuolo terrestri. In definitiva si afferma con un’enunciazione ed estensione dei diritti individuali, della proprietà privata, della libertà d’impresa, dello spirito capitalistico.

Qui bisogna osservare che il richiamo e il ricorso alla reazione (o se si preferisce alla rivoluzione) anticapitalistica – l’autore è ben consapevole del punctum dolens sotteso alla questione, mostrando al riguardo le opportune cautele, distinguendo il diritto di proprietà dall’impossessamento, dalla predazione e usurpazione – ha finora prodotto nel mondo perlopiù povertà diffusa e immobilismo sociale (altra faccia non dell’uguaglianza bensì dell’egualitarismo dogmatico) oltre che totalitarismo (da cui, beninteso, non è affatto immune nemmeno il regime capitalistico) e che la proprietà privata e il liberalismo non necessariamente producono l’individualismo radicale, negatore e spregiatore dei valori della “comunità”.

Basterà ricordare qui gli esempi emblematici in questo senso del pensiero di Antonio Rosmini e ancor più di Alessandro Manzoni, l’esemplare capofila della “scuola cattolico-liberale” ottocentesca, secondo la lezione di Francesco De Sanctis.

Sarà appena il caso di richiamare alla mente, a proposito delle ragioni delle istanze ”comunitarie”, la classica distinzione sociologica tardo-ottocentesca di Ferdinand Tonnies fra “società” e “comunità”: la prima, tutta aggruppamento volontario e societario, fondato sul contratto e su valutazioni di convenienza e opportunità, tipico della società meccanicistica, moderna; la seconda, tutta aggruppamento spontaneo e comunitario, naturale, che preesiste all’individuo, basato sulla vicinanza e la condivisione, tipico della società organicistica, arcaica.

S’intravvede in questo senso, nell’etica della comunità adombrata dal nostro autore,     che sembra porsi oltre il dilemma tra convinzione e responsabilità, un’indicazione sottilmente “antimoderna”, “antisviluppista”, una riscoperta delle radici antropologiche, dello “spirito animistico” e della “sacralità della terra”. E qui Ugo Collu risente della lezione di Mircea Eliade, grande antropologo e storico delle religioni novecentesco, di cui il nostro autore è stato un approfondito studioso e perfino un giovane corrispondente epistolare.

Le posizioni di Eliade, riassumibili nella formula del “rifiuto della storia” ovvero di opposizione al “relativismo storicistico” e di affermazione della sacralità “paradisiaca” del “tempo del mito”, sono in qualche misura simmetriche a quelle postulate da una “ecologia integrale” espressa oggi dalla dottrina cattolica, specie se pensiamo all’enciclica ecologica di papa Francesco “Laudato si’”, coi suoi ripetuti moniti a difesa della “cura della casa comune”, in linea con la prospettiva “progressista” abbracciata da questo pontefice, indotto sul piano dottrinale a sbilanciarsi fra esigenze minimalistiche di tutela e conservazione della tradizione e spinte di natura “rivoluzionaria” e “massimalistica”, di apertura alle pressioni del mondo.

Bisogna qui pure rammentare – come fa opportunamente l’autore –  che il discorso sull’”emergenza climatica”, sulla “sostenibilità” e sui “limiti dello sviluppo” e gli allarmi sugli effetti della “crescita illimitata” furono affacciati già alcuni decenni or sono, in una prospettiva ambientalistica multipla, pluridisciplinare, dal Club di Roma (coi suoi aggiornamenti e nuovi rapporti presentati oggi a ridosso dei cinquant’anni di distanza) – la prospettiva appunto dell’allarme circa i pericoli dell’apocalittico “terricidio” richiamata da Ugo Collu – e non possono non essere messi in correlazione col denunciato concomitante problema della sovrappopolazione a livello planetario (con l’eccezione della attuale denatalità nell’Occidente industrializzato).

Problema invece sul quale avanza un’opinione diversa la dottrina cattolica, secondo cui lo stato di sofferenza del Pianeta e il “lamento della Terra” sarebbero imputabili soltanto a un dissennato modello di sviluppo dell’homo oeconomicus – precipitato da “homo sapiens a homo demens”, così postilla Collu, il quale paventa in questo scenario la “fine dell’Antropocene” – e non invece anche a una vera e propria “bomba demografica”, per utilizzare il lessico introdotto negli Anni Sessanta dall’ecologo Paul Ralph Ehrlich, ancora non disinnescata.

Alla teoria avversata del presunto o preteso sovrappopolamento, professata dalla chiesa cattolica in rapporto al tema della lotta alla fame e alla sete di miliardi di  abitanti sulla Terra, specie del Sud del Mondo, si deve obiettare che il modello “pauperistico” da essa propagandato mal si concilia paradossalmente, a ben vedere, con quello “solidaristico” della sua predicazione, se non si prevede al contempo un connesso funzionale motore produttivo e un conseguente sostegno finanziario necessario alla equità distributiva delle ricchezze garantita ad opera della società a favore dei ceti più poveri. Il “comunitarismo” è applicabile prevalentemente a soggetti di limitate dimensioni sociali, tipo gli ordini mendicanti, gli istituti missionari e gli enti caritatevoli. Per distribuire la ricchezza bisogna prima di tutto produrla e il modo di produzione deve essere realmente efficiente ed efficace.

Questo non vuol dire assecondare pedissequamente il sistema oggi fondato sulla globalizzazione, sull’economia neoliberista e sulle loro storture, che sta rendendo i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, provocando le attuali ondate migratorie dal Sud povero e affamato del mondo verso il Nord opulento (ma la sua opulenza sembra anch’essa incrinarsi, contraddetta e minacciata da squilibri interni ed esterni).

Quel  sospetto o pregiudizio storico nei confronti del liberalismo tipico della dottrina cattolica dai tempi del “Sillabo” di Pio IX, specie nella variante critica socio-economica-politica del magistero di papa Bergoglio, il quale ha recentemente sollevato gli allarmi di fronte al diffondersi di un’”economia malata”; quel sospetto – dicevamo – era stato in realtà mitigato e anzi rettificato al tempo del pontificato di Giovanni Paolo II, che nell’enciclica “Centesimus annus”, redatta nel centenario della madre di tutte le encicliche sociali della Chiesa, la “Rerum novarum” di Leone XIII, introduceva i concetti di “nuovo capitalismo” e di “libera economia”, pur ribadendo il principio dell’”opzione preferenziale per i poveri” e della proprietà privata come “amministrazione e custodia dei beni” con destinazione o funzione sociale. Un intero sostanzioso libro peraltro l’ha dedicato a illustrare quest’enciclica il teologo statunitense di origine canadese Richard John Neuhaus, intitolandolo emblematicamente “Solidarietà e profitto. La sfida del capitalismo cristiano”. Dove si distingue il liberalismo (positivo) dal libertarismo (negativo).

Del resto sul piano del pensiero economico “laico” una “terza via” – lasciando da parte la cosiddetta “terza posizione” della dottrina sociale fascista – alternativa alla scelta fra socialismo e liberalismo, l’aveva affacciata tra gli altri (secondo alcuni si potrebbe risalire verisimilmente alla fiumana Carta del Carnaro di D’Annunzio e De Ambris del 1920) l’economista tedesco Wilhelm Ropke alla fine del secondo conflitto mondiale con l’opera “Il problema della Germania”, dove si ragionava di “sistema misto” e di “economia sociale di mercato”, cioè di qualcosa di diverso dalla mera proposizione di un sistema intermedio ma che contenesse invece elementi utili a proiettarsi – per usare il titolo di un altro importante libro di questo autore – “Al di là dell’offerta e della domanda. Verso un economia umana”. Qualcosa di ben diverso dunque dall’attuale mercatismo, crematismo e turbocapitalismo. Dalla deregolamentazione.

Un qualcosa, questa “economia umana”, che a voler tentare un parallelismo sul piano del pensiero filosofico cattolico si potrebbe definire un’ipotesi non incompatibile con certi assunti del “personalismo” (Emmanuel Mounier) o dell’“umanesimo integrale” (Jacques Maritain). Anche se il nostro Ugo Collu, in un carteggio intrattenuto con chi scrive, si professa più attratto dal pensiero di Teihlard de Chardin, l’evoluzionista cristiano vicino allo “spirito della terra”, che dalle tesi di Maritain.

Passiamo ora al secondo elemento fondamentale della Natura, ovvero l’Acqua, notando come le parentesi narrative autobiografiche che fanno da controcanto all’argomentazione ecologica ed etico-politica, espressa con vero garbo prosastico, con stile di alta divulgazione e sicura dottrina; notando – si diceva – come  sembrino, tali parentesi, avere la funzione  e lo scopo di opporre alla frana delle “umane sorti e  progressive” la resistenza del ricordo e il sapore o il sentimento del tempo (però senza nostalgismo, ma in quanto atto di coscienza e volontà).

Quasi a voler fissare a futura memoria l’immagine della terra perduta: “Solitudine e canto della Terra”, per dirla con le parole perturbanti del nostro autore. E qui pare davvero di sentir risuonare le note solenni e struggenti del “Canto della Terra” di Gustav Mahler, musicista  prediletto dal nostro amico. La trattazione del tema acquatico è introdotta dalla citazione semplice e incantevole di Paul Claudel: “Tutto quanto il cuore desidera può sempre ricondursi all’immagine dell’acqua”.

Nel capitolo intitolato “Poesia e immaginazione” il nostro autore si lascia rapire dal fantasma poetico e rammenta a se stesso e a un estasiato lettore i versi indimenticabili che celebrano lungo la linea del tempo le virtù dell’Acqua. Ecco così il turno di Tibullo: “Chi può dimenticare il Tibullo delle Elegie?” Il poeta  –   annota Ugo Collu – “si rifugia, evitando la canicola, in campagna, nella pace della natura ‘sub umbra arboris ad rivos praetereuntis acquae’.

Nel locus amoenus diventato locus pacis”.  E continuando a scivolare sopra il corso dei secoli: “Chi non si incanta” – si domanda  il Nostro –  “’alle chiare, fresche e dolci acque’ cantate dal Petrarca in Valchiusa”?  Per approdare, riandando a ritroso, nella forse più emozionante definizione al mondo del naturale sacro elemento, liquido dono di Dio: “Chi non si raccoglie in silenziosa meditazione davanti ai versi sublimi di Francesco d’Assisi in lode del Signore ‘per sora Acqua, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta’”?

Collu prosegue passando in rassegna i fiumi celebri della faticosa vicenda dell’incivilimento umano, che “sono i veri protagonisti dell’epopea dell’acqua”. E scorrono così davanti i nostri occhi i fiumi solenni e mitici della storia religiosa e civile: “dal Nilo di Mosè, al Giordano del Battista, al Gange degli Indù, al Danubio, al Po”.

Qui, in queste pagine, l’autore si abbandona a un vero e proprio turbinio di rimandi temporali, di stemmi araldici: citando l’Eraclito del panta rei e richiamando le acque della Genesi, dopo aver ricordato i numerosi grandi poeti artisti e musicisti, antichi e moderni, che hanno immortalato con le opere i loro personali fiumi dell’anima.

Senza tralasciare di inserire fra le maglie dell’ordito storico universale un frammento di memoria privata, autobiografica, ancora tremante, purtroppo mesto e dolente, ma in qualche misura anche luminoso per la promessa consolatoria della fede oltre il confine della vita, nel paragrafo sulle “Acque dolci e acque amare”; il frammento –  dicevamo –  relativo alla prematura morte “per acqua” del giovane e amato germano: “quando il Flumendosa, orfano delle Ninfe rassicuranti, trattenne sul suo fondo mio fratello, con tutti i sogni dei suoi diciotto anni”.

E poi ci sono le acque lustrali, quelle della purificazione, del fonte battesimale. Illustrate con dovizia di citazioni tratte dalle Sacre Scritture, in particolare dal Nuovo Testamento: “Non c’è immagine migliore per indicare la bellezza che l’acqua pura; non altra immagine trova il Cristo per indicare la grazia che l’acqua viva”.

E ancora ci sono le “inquietanti acque del mare”, che nascondono il mistero di una profonda abissale sacralità: “L’acqua del mare è veramente ‘affascinante’ e nel contempo ‘tremenda’”. Perché “nella fenomenologia religiosa, acutamente esaminata da Rudolph Otto, il sacro (il numinosum) attrae (fascinans) e intimorisce (tremendum)”. Come a dire che “da imago vitae l’acqua diviene spesso imago mortis”. Basti pensare all’acqua fatidica del cataclisma assoluto: “In molte culture l’immagine del Diluvio Universale chiude per sempre il libro del mondo”. Insomma, “L’umanità e l’acqua sono talmente coincidenti e intrecciate che la storia dell’una potrebbe essere raccolta e dipanata con la storia dell’altra”.

E qui il discorso si rivolge all’ambiente, alla salute del pianeta. L’assenza delle sorgenti produce il deserto, la carestia, la sete: “L’acqua non è inesauribile”. Non si possono dimenticare in proposito le semplici, chiare e definitive parole di papa Francesco nella sua enciclica ecologica: “L’accesso all’acqua, potabile e sicura, è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale”. Questa affermazione di tenore etico-giuridico denuncia che “Siamo al limite ultimo. Sul bordo dell’abisso”. Perché l’acqua, questa risorsa primaria imprescindibile e vitale “Da bene comune è ormai ridotta a pura merce, oggetto di mercato e di profitto”. Senza parlare del rischio ormai incombente, e già drammaticamente in atto, delle migrazioni climatiche.

La Terra in quarantena. Tesori e allarmi” termina con l’analisi del terzo dei quattro elementi fondamenti della Natura: il Fuoco. L’autore ci introduce al “Fuoco dell’inizio”: “Secondo le teorie moderne, l’intero cosmo ha avuto inizio da una ‘scintilla assoluta’”: il Big-Bang.

Passando poi all’orizzonte della storia dell’umanità, troppo ghiotta l’occasione per non evocare il mitico “fuoco prometeico”. Collu coglie il destro per affacciare un’associazione simbolica di tipo psicoanalitico, audace ma nondimeno persuasiva: “Il complesso di Prometeo che si oppone agli dei è parallelo a quello di Edipo che si oppone al padre per avere il possesso della madre”. Il Fuoco rapito agli dei e il dominio sulla Madre come affermazione di “potenza”. Il paradosso dell’elemento ardente e poderoso è che “il fuoco, nella sua invincibile potenza distruttiva, pur portando terrore, può, allo spettatore in sicuro riparo, offrirsi come puro spettacolo: è appunto il ‘fascino del fuoco’”.

Come non pensare all’incendio dell’antica Roma e all’estasi contemplativa di Nerone davanti al devastante rogo, accompagnato dal suono gioioso della sua lira? Situazione in qualche misura analoga – incalza l’autore –  ripetutasi nel nostro tempo, ad opera incredibilmente di un noto direttore d’orchestra, sempre a proposito della “bellezza” dell’apocalisse, davanti al rogo delle Torri gemelle a New York, che così  esclamava, “salutando” il tragico evento: “La più grande opera d’arte possibile nell’intero cosmo”!

Come non riandare con la memoria, istituendo un parallelismo a proposito dello spettacolo fascinoso del “sublime apocalittico”, questa volta sul versante dell’acqua “distruttiva”, all’altro elemento “incontenibile” al pari del fuoco nell’immaginario popolare; come non riandare – dicevamo –  al lucreziano “suave mari magno”?   Col seguente commento su tale “maledetto” e aberrante “sublime” da parte dello scandalizzato e indignato autore: ”Senza la legge morale” anche la bellezza del kantiano “cielo stellato” sembra rivelare “la potenza notturna e tenebrosa”. E questa “bellezza” può “rimandare solo a quella di Lucifero, come descritto da Isaia e dall’Apocalisse. Una species abbagliante e ingannevole, che esalta il male e la morte”.

Tutto questo perché il Fuoco è “sorgente di vita e nel contempo minaccia continua di morte. Il biblico ‘roveto ardente’ come teofania e il ‘fuoco della Geenna’ come condanna”.E qui spunta la sensibilità ambientalistica e soccorre la memoria infantile dell’autore   a proposito dei roghi estivi che da secoli infiammano la Sardegna (vogliamo ricordare qui – a parte le norme antincendio stabilite fin dai tempi medievali dalla Carta de Logu  –  che già Piero Gobetti in un suo lucido studio, purtroppo oggi dimenticato, sulle condizioni della Sardegna a lui contemporanea nei primi decenni del secolo scorso, denunciava come l’Isola diventasse d’estate un vero e proprio “braciere”).

Rievoca l’autore: “Ho vivo dalla mia infanzia il richiamo drammatico delle campane a stormo, a raccolta della popolazione per domare le fiamme”.

E come per fatidico ossimoro: “Ricordo però anche l’ebbrezza del ‘fuoco monumentale’. L’abbiamo vissuto nei nostri villaggi coi ‘falò’ rituali e simbolici dei passaggi stagionali (come non ricordare qui – annotiamo noi – per contaminazione associativa il romanzo pavesiano “La luna e i falò”, coi suoi bagliori di crisi antropologica della cultura contadina sullo sfondo della guerra partigiana?), che da rito ancestrale e propiziatorio diventa strumento di morte e distruzione”.

Poi Collu richiama la figura del pensatore greco Empedocle, di Agrigento, con la sua teoria dei quattro elementi “assunti come arkè nella propria filosofia”. Il nostro autore cita la leggenda che “ci racconta del ‘ritorno al fuoco’ da parte del filosofo suicida nel cratere dell’Etna”. “Il fuoco” – commenta Collu – “non solo come catarsi, ma anche come palingenesi”.

Ed ecco qui l’immancabile contrappunto autobiografico e narrativo: “Ho pianto anch’io un caro amico ossessionato dal ‘complesso di Empedocle’: un giovane buono, non attrezzato a sopportare un errore grave (ma non irrimediabile) della propria vita”. Ancora sul volto distruttivo del Fuoco sta impresso lo stigma del “fuoco sinistro”: quello dei Lager nazisti: “E il forno crematorio era indicato con il termine ‘focolare’ (Feuerstelle). Il ‘focolare’: un topos sacro a tutte le popolazioni della terra. Mai nella storia umana una profanazione così violenta e una volgarità così turpe”.

Sempre sul piano della bipolarità troviamo anche il “Fuoco buono”: “Il fuoco buono, il ‘frate Focu’ di Francesco d’Assisi, esiste: è il focolare (questa volta – ribadiamo noi – non nell’accezione profanatrice dei Lager)”. Esso è legato all’immagine della famiglia e del suo nucleo sociale primario: “Nell’impero romano raccoglieva insieme l’eredità affettiva (Lares) e le divinità protettive (Penates)”.

Nel calore rassicurante del focolare domestico, durante le lunghe sere invernali, la famiglia tradizionale dei paesi si riuniva per ascoltare dalla voce degli anziani i “contos de foghile”. Voci integrate o sostituite, preferibilmente nel caso specifico dei ricordi d’infanzia dell’autore, dalle pagine memorabili dei classici, gli exempla canonici della letteratura italiana letti magari vicino al caminetto, “attorno al fuoco”, dal padre al piccolo Ugo: tratti “dal libro Cuore di De Amicis o da Piccolo mondo antico di Fogazzaro o dai Promessi sposi di Manzoni”.

Ma si potrebbe pure accennare alla concertazione stilistica che questa analisi policentrica e poliversa (letteratura, filosofia, simbologia, antropologia, autobiografia)  evidenzia nella prosa di Ugo Collu, e che ti fa pensare alla maniera di coniugare l’arte dell’argomentazione con quella della narrazione, tipica dello stile di un Montaigne o di un Pascal. Arte saggistica la quale ricorda – secondo le immagini metaforiche evocate dal nostro autore – come il pensiero sia nella sua mobilità o “volatilità” in qualche modo alimentato dal calore e dalla luce ravvivante del Fuoco: “Cartesio dans la poele, davanti alla fiamma di una stufa in una soffitta di Ulma in Germania, seguì il filo del dubbio fino al ‘cogito’”. Oppure  Tommaso d’Aquino, che “scrisse la ‘Summa’ al lume stimolante di lucerne e candelabri”.

Il discorso si conclude proprio con la metafora del “palpito della candela”: “La fiammella è la lux perpetua del culto domestico dei trapassati”. Col che si completa (provvisoriamente) il cerchio semantico: la nostra vita personale e universale, molecolare e cosmica, è legata alle radici della Terra, della nostra “Casa comune”, come pure alle ali del futuro di specie, della biodiversità e dello stato di salute dello stesso Pianeta, che si salvaguardano solo rispettando l’equilibrio dell’ambiente e la sua integrità.

Questi sono i fattori della nostra libertà, della nostra vita, i quali, per i singoli e per l’umanità intera con tutte le forme viventi, sgorgano da un impegno diuturno, che spesso deve affrontare conflitti esistenziali dolorosi e angosciosi, perché, come affermava Kierkegaard, altro spirito-guida di Ugo Collu: “L’angoscia è la vertigine della libertà”. Vertigine che non rinuncia tuttavia all’anelito della speranza finale nell’approdo della fede: “Solo un dio ci salverà”, ci ricorda il nostro autore citando questa volta  Heidegger, perché – congedandosi così dai suoi lettori – “Nella speranza resta per tutti la innegoziabile condizione di portare con sé il destino della propria fine”.

One Comment

  1. Mario Pudhu

    «il destino della propria fine» s’Umanidade lu tenet seguru fintzas si faghimus sos sàbios líbberos e responsàbbiles ca intantu goi podimus èssere solu de su chi podimus e semus ca semus (Terra e Umanidade) solu una pimpirida infintesimale de s’Universu.
    Ma proite a fàghere sos macos irbariados de una ‘economia’ mercenàristica chi abbàssiat su cristianu a mercenàriu e merce avilida de bèndhere / comporare / frundhire e produit, eja, ‘richesa’ in manera «realmente efficiente ed efficace» ma ammuntonèndhela e pro l’ammuntonare sempre de prus in manos e a cumandhu de pagos, e no pro la «distribuire», e distruindhe ateretanta richesa e fintzas distruindhe benes naturales e produidos, logu e zente e sempre de prus faghindhe poberesa in d-unu ‘mundhu’ sempre prus ‘ricu’?
    Est chistione chi un’ideale e sistema económicu de aprofitamentu e irrichimentu privatizadu, a sensu únicu pro pagos e a dannu colletivu (de homo homini lupus) tocat de lu currèzere fintzas in sensu de prus pagu produtivu ma menzus e prus, custu eja distribbuidu e no privatizadu in manera e cantidade assurda e intolleràbbile.
    S’Umanidade (‘lupos’, ‘leones’ e ‘isciacallos’ puru) est intantu comunidade, colletividade in sa matessi ‘barchita’ chi tenimus totugantos s’unu bisonzu de s’àteru (homo homini homo) a profetu e bene s’unu de s’àteru, e s’ONU tocat chi assumat un’àteru ruolu dignu de s’Umanidade e profetosu pro totu s’Umanidade chi no siat s’alimúsina chi no líbberat de su bisonzu e invetze alimentat dipendhéntzia pedidora e poberesa.
    Proite no si comintzat a proibbire e frimare sa produtzione de totu sos armamentos colletivamente distrutivos (prus “efficiente e efficace” a dolu mannu de sos mortos de fàmine a prus de sos mortos de bombas) e gai eliminare sa distrutzione de benes, risorsas materiales, utilizu assurdu de capatziades umanas e ambiente, fàghere prus pagu incuinamentu e pònnere sa zente prus in cunditziones de si produire su chi li serbit pro una vida prus umana, dignitosa, líbbera, responsàbbile e prus sana?

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