Pietro Soddu: Sardegna. Il tempo non aspetta tempo [di Silvano Tagliagambe]

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Questo libro di Pietro Soddu traccia, con molta chiarezza, la via da seguire per un autentico rinnovamento della politica che possa dare una vera speranza alla Sardegna. Si presenta sotto forma di dialogo tra un Autonomista, un Federalista e un Sovranista e, apparentemente, non opta per una di queste tre posizioni, al punto da indurre Manlio Brigaglia, nelle sue “Istruzioni per l’uso”, a scrivere: “Soddu non sceglie. Praticamente è come se volesse entrare nel dibattito non per proporre e sostenere una soluzione, ma piuttosto per offrire il materiale storico e ideologico per progettarla al meglio, tenendo conto di che cosa vale salvare del patrimonio identitario”.

In realtà sceglie, eccome, solo che lo fa non rimanendo in superficie, a livello del sapere, ma scavando fino a raggiungere lo strato profondo del capire, quello dell’epistemologia, termine che etimologicamente deriva dalle due parole greche episthmh (discorso) e logoV (scienza) e significa dunque, nell’accezione che usualmente ne viene data, «discorso intorno alla scienza», alla scienza della politica, in questo caso. Ma c’è un’altra possibile derivazione etimologica, più interessante nel nostro caso, dal prefisso della lingua greca epi (che significa «su» o «sopra») e dal verbo istanai (che significa «stare»): in questo modo il termine può essere tradotto letteralmente come uno «stare sopra» o un «sovrastare». A questo significato si ricollega la parola inglese understanding, con la sola differenza che, in questo caso, anziché di uno stare sopra si parla di uno «stare sotto».

La versione tedesca di questa facoltà cognitiva, ver-stehen, è più complessa, in quanto si compone del verbo Stehen, che significa ancora una volta «stare» (in piedi) accompagnato dal prefisso ver-, che porta in sé un senso di allontanamento, di perdita, di cambiamento e di capovolgimento.  In tutti e tre i casi i significati convergono nel rimandare, comunque, a un cambiamento di quota e di livello, il quale, sia che  avvenga verso l’alto o verso il basso, evidenzia la necessità di discostarsi dalla superficie del discorso per andare giù, in profondità, o innalzarsi a un punto di vista superiore.

Ed è quello che fa appunto Soddu, che sintetizza in un passaggio chiave il senso complessivo del suo discorso: “Solo riforme istituzionali che nascano da una profonda riforma culturale che ridia alla politica il senso democratico dell’agire collettivo possono riportare la fiducia, ricostruire il consenso, rompere la gabbia dell’individualizzazione che rischia di tenerci prigionieri dietro sbarre invisibili, contenti di cibarci di quello che le grandi agenzie del mondo globalizzato ritengono l’alimento più adatto per conservarci tutti al loro servizio” (p. 154).

Ecco la svolta epistemologica, il passaggio dal sapere al capire, con il supporto di una vasta conoscenza non esibita, anzi pudicamente celata, ma chiarissima nelle sue fonti e nei suoi propositi, che vanno pazientemente ricostruiti per afferrare il senso profondo della proposta teorica e politica avanzata.

Le fonti si manifestano laddove l’autore contrappone Epimeteo al fratello titano Prometeo, l’emblema del potere ormai senza vincoli della tecnica, il cui atto di generosità nei confronti degli uomini che voleva emancipare si è capovolto, consegnando i destinatari del suo dono  fuoco nelle mani di un potere impersonale, da cui non hanno alcuna possibilità di liberarsi, quasi a immagine e somiglianza della sua stessa condizione di impotente incatenato nella roccia, senza difesa nei confronti dell’avvoltoio che gli divora il fegato. Epimeteo, il cui nome significa «colui che riflette in ritardo, che capisce a posteriori», è contrapposto al gemello Prometeo «colui che riflette prima». Proprio per questo nell’antichità egli era considerato quasi sinonimo di sciocco, di ottuso, e per riabilitare e nobilitare questo modello di comprensione ex post si deve aspettare Hegel, con la sua famosa metafora della “nottola di Minerva”, emblema della filosofia, che giunge sempre a posteriori, alla fine di un’epoca, per vedere nel buio con i suoi grandi occhi di civetta ciò che è accaduto e decifrarlo, dandogli un senso.

Dal punto di vista di Hegel, quindi, il tipo di atteggiamento di cui Epimeteo è espressione è antagonista e collaboratore a un tempo della “talpa” della storia, che continua nascostamente a scavare sotto terra, avanzando inconsciamente: la nottola contempla e la talpa fa, e l‘una senza l’altra sarebbe incompiuta e portatrice di una visione parziale e unilaterale del compito dell’uomo nel mondo.

Del rapporto di necessaria complementarità tra Prometeo ed Epimeteo, con il baricentro dell’attenzione e della considerazione spostato più verso quest’ultimo che verso il primo, proprio per arginare le eccessive pretese della tecnica nei confronti della filosofia e del pensiero, parla diffusamente Ivan Illich nel suo libro Descolarizzare la società, del 1971, che tante polemiche ha sollevato, in gran parte dovute a una incomprensione del suo assunto di fondo, che può essere valutato in modo corretto solo se lo si pone in relazione con un breve articolo successivo dello stesso autore, ‘Elogio della cospirazione’, e in particolare di un brano di esso che parla del “respiro condiviso”. Vale la pena di riportarlo per intero: “Il termine latino osculum non è né molto antico né frequente. È una delle tre parole che possono essere tradotte dall’italiano bacio. Rispetto all’affettuoso basium e al lascivo suavium, osculum fece più tardi la sua comparsa nel latino classico e veniva usato in una sola circostanza per designare un comportamento rituale: nel II secolo divenne il segno dato da un sodato in procinto di partire a una donna con cui egli riconosceva come propria discendenza il figlio da lei atteso.

Nella liturgia cristiana del I secolo osculum assunse una nuova funzione, diventando uno dei due momenti cruciali nella celebrazione dell’Eucarestia. La conspiratio, il bacio sulla bocca, divenne il gesto liturgico solenne con cui i partecipanti all’azione del culto condividevano il loro respiro o spirito. Esso venne a significare la loro unione nell’unico Santo Spirito, la comunità che prende forma grazie al soffio di Dio. L’ecclesia si formò attraverso un’azione rituale pubblica, la liturgia, e il cuore della liturgia era la conspiratio. La principale celebrazione cristiana viene quindi intesa esplicitamente in un senso affatto corporeo, come un cospirare che produce una comune atmosfera, un milieu divino.

L’altro momento eminente della celebrazione era la comestio, la comunione della carne, l’inclusione del credente nel corpo del Verbo Incarnato, ma la communio era teologicamente collegata alla conspiratio che la precedeva. Conspiratio divenne l’espressione somatica più forte, chiara e inequivocabile che designa il processo non gerarchico di creazione di uno spirito di fraternità in preparazione della cena unificante. Attraverso l’atto di mangiare, i compagni cospiratori venivano trasformati in un noi, un’assemblea che in greco si dice ekklesia. Essi credevano inoltre che il noi fosse anche l’Io di qualcuno e ricevevano il loro nutrimento trovando riparo presso l’Io del verbo Incarnato. Quelle della liturgia non sono parole e azioni mondane, ma eventi che si verificano dopo che il Verbo si è fatto carne. La pace intesa come il mescolarsi del suolo e delle acque suona gradevole alle mie orecchie, ma la pace come risultato della conspiratio richiede un’intimità esigente, oggi quasi inimmaginabile”.

La cena unificante, la comunione della carne, vale a dire il momento più formale della cerimonia della celebrazione dell’Eucarestia, officiato dal celebrante, presupponeva e richiedeva quindi, come fase preparatoria, un processo non gerarchico e informale di creazione di uno spirito di fraternità attraverso il respiro condiviso, l’atto fisico che successivamente, per effetto di un trasferimento analogico, è passato a significare, metaforicamente, lo spirito come principio immateriale, contrapposto al corpo e alla materia. Il respiro condiviso è un dono reciproco e consapevole che costituisce la comunità e la rafforza.

Vengono in mente le bellissime parole lasciateci all’inizio di quest’anno come testamento spirituale scritto su un foglietto prima di congedarsi da questa vita da Padre Francesco Piras,  gesuita zen, direttore della Scuola di Meditazione da lui fondata nel 1983, che per trent’anni ha insegnato la meditazione trascendentale a migliaia di Sardi in tutta l’Isola : “Respira, respira per dieci. Respira al posto mio”.

Secondo Illich la conspiratio precedeva non solo la comestio nelle celebrazioni religiose, costituendone in qualche modo il necessario presupposto, ma anche, sul piano laico e istituzionale, la conjuratio, cioè quel giuramento solenne davanti a Dio che sta alla base del contratto sociale nelle città medioevali. Proprio questa endiadi di conspiratio e di conjuratio, di comunità e forma istituzionale, che si materializza e prende forma in una configurazione storica radicalmente nuova, la conjuratio cospirativa, che fece della civiltà urbana europea qualcosa di completamente originale e distinto rispetto agli stili urbani di altre zone, implicava una peculiare tensione dinamica tra l’atmosfera e il clima della comunità solidale e coesa, resa tale dal respiro, cioè dallo spirito, comune, e la sua costituzione legale, di tipo contrattuale. Questa tensione assicurava stabilità e continuità al tessuto urbano e alla sue forme istituzionali, che traevano forza, alimento e solidità dalla pax, il respiro condiviso in modo egualitario da tutti.

Quando parla di riforme istituzionali che devono nascere da una profonda riforma culturale che restituisca significato e valore alla politica intesa come espressione del senso democratico dell’agire collettivo Soddu, pur senza farne esplicita menzione si riferisce, manifestamente, a questo sfondo. Da esso egli trae la convinzione che prima di pensare al sovranismo, al federalismo, all’autonomia, cioè alle possibili soluzioni istituzionali, occorre fondare la pace, nel suo significato profondo e originario di respiro condiviso, di clima e atmosfera di convinta partecipazione, coesione e armonia del corpo sociale, che dà inizio alla comunità e la costituisce. Nessuna forma istituzionale potrebbe infatti resistere alla lacerazione del tessuto sociale, allo smarrimento del senso civico, alla rottura del clima di fiducia reciproca e al venir meno della solidarietà che ne scaturisce.

I valori, soprattutto quelli fondanti, quelli che sono alla base delle virtù civiche, e che per questo sono i presupposti indispensabili per la formazione di una comunità salda e duratura, non possono essere il prodotto delle nostre istituzioni, perché le devono precedere. Se le istituzioni si creano i propri fini e valori, se questi ultimi vengono, di conseguenza istituzionalizzati, il processo di deterioramento che prima o poi finisce con l’investire le istituzioni, specie in periodi di crisi sociale ed economica come l’attuale, si estende anche ai valori e alle finalità, lasciando l’uomo privo di riferimenti e di appigli. Il mondo perde così la sua dimensione umana per trovarsi preda dell’inesorabilità dei fatti e della fatalità, che caratterizzavano le società primitive. Vengono in questo modo meno la logica dello sforzo e dell’impegno personale, anche attraverso la ribellione, la fiducia in un futuro che sia aperto alla speranza. E se si perde anche quest’ultima non rimane altro.

Ricordiamo infatti che Epimeteo sposò Pandora, colei che sventatamente e per pura curiosità aprì il vaso che il marito teneva gelosamente custodito, nel quale Prometeo aveva chiuso tutti i mali che potessero tormentare l’uomo: la fatica, la malattia, la vecchiaia, la pazzia, la passione e la morte. Essi uscirono e si sparsero immediatamente tra gli uomini: solo la speranza, rimasta nel vaso tardivamente rinchiuso, da quel giorno sostenne gli uomini anche nei momenti di maggiore scoraggiamento. Per questo, ci dice il mito, se viene meno anch’essa, è davvero la fine inesorabile di tutto.

Ed è qui che si innesta, ulteriore omaggio di Soddu alla riflessione di Illich, il riferimento a Prometeo e a Epimeteo. Il federalista di questo dialogo sul futuro della Sardegna è molto preciso ed esplicito nel sottolineare il senso del passaggio dalle considerazioni fatte finora alle figure mitologiche di questi due fratelli Titani: “È  importante che abbiate colto”, dice non a caso, “il fatto che per realizzare un qualsiasi progetto politico si deve prima di tutto analizzare con attenzione la condizione umana. Che prima di decidere bisognerebbe unire Prometeo ed Epimeteo, il suo gemello, colui che  agisce dopo. Dopo la conoscenza, dopo l’esperienza, dopo aver visto e sperimentato le vere e reali possibilità. Prometeo ha indicato la strada del riscatto ma la tecnica si è rivoltata contro di lui. Per superare il dominio della tecnica bisogna agire con sapienza, coraggio e prudenza. Bisogna agire secondo la virtù dell’esperienza” (p. 168).

Una società che affida tutte le sue speranze e la propria volontà di riscatto alle istituzioni finisce con l’istituzionalizzare i propri valori, i propri desideri, i propri sogni, le proprie aspirazioni. Una volta che anche questa dimensione sia stata istituzionalizzata in processi programmati e meccanizzati si smarriscono inevitabilmente il senso del possibile, la voglia del cambiamento, lo slancio dinamico e propulsivo che ispira e alimenta le grandi trasformazioni sociali. I membri della società finiscono così col credere che il vivere bene consista nell’avere istituzioni che definiscano i valori e i fini di cui essi stessi e la loro società ritengono d’avere bisogno. Seguendo questa via il degrado delle istituzioni, il loro invecchiamento e la loro crescente inadeguatezza in condizioni profondamente mutate finiscono, inesorabilmente, per produrre anche il consumo e il declino dei valori legati a esse e da esse stesse generati e legittimati. Si ha così una corruzione dell’immagine che l’uomo si fa di se stesso, che provoca una regressione della sua coscienza individuale e una mutazione di quella collettiva, in seguito alla quale l’uomo medesimo viene visto come un essere dipendente non più dalla natura e dalle altre persone, ma dalle istituzioni. 

Questa istituzionalizzazione dei valori essenziali, questa loro trasformazione in qualcosa di programmato e scontato, che dovrebbe garantire i risultati desiderati da chi è vittima di questa alienazione e la subisce, sono al centro di quella che Illich definisce l’illusione prometeica, l’atto di Prometeo portato all’estremo, quello in seguito al quale l’uomo è destinato a essere sempre più la fornace che brucia i valori prodotti dai meccanismi, dalle strutture e dai processi da lui stesso creati.

Ecco perché, conclude Illich:“Abbiamo ora bisogno di un nome per chi crede più nella speranza che nelle aspettative. Abbiamo bisogno di un nome per chi ama più la gente dei prodotti, per chi crede che

Non ci sono uomini poco interessanti.

Sono i loro destini storie di pianeti.

Tutto, nel singolo destino, è singolare,

e non c’è un altro pianeta che gli somigli.

 Abbiamo bisogno di un nome per chi ama la terra sulla quale tutti possono incontrarsi.

 Ma se qualcuno è vissuto inosservato

e di questo s’è fatto un amico –

tra gli uomini è stato interessante

anche col suo passare inosservato.

Abbiamo bisogno di un nome anche per chi collabora con il proprio fratello prometeico ad accendere il fuoco e a foggiare il ferro, ma lo fa per accrescere la propria capacità di assistere, curare e aiutare gli altri, sapendo che

Ognuno ha un mondo misterioso tutto suo

e in esso c’ è l’attimo più bello

e l’ora più angosciosa,

solo che noi non ne sappiamo niente.

Propongo che questi fratelli e sorelle pieni di speranza vengano chiamati uomini epimeteici”[1].

Anche secondo Soddu abbiamo bisogno di uomini epimeteici, piuttosto che prometeici. Ne abbiamo bisogno perché “la politica deve tornare a essere libertà e liberazione, emancipazione dal dominio imposto dalla tecnica e da qualsiasi altro potere. I valori umani devono tornare in campo per rivendicare la loro parte e consentire alla felicità di riprendere il suo posto nella vita degli uomini.

Ma la politica non tornerà a occupare il suo posto se gli uomini continueranno a comportarsi solo come Prometeo, cioè a ignorare la realtà, a combattere nemici sbagliati, a costruirsi da soli i propri padroni, a cercare di raggiungere obiettivi impossibili” (pp. 168- 169).

Gli uomini non devono dividersi ma unirsi, devono ritrovare la solidarietà e la pace come respiro condiviso, traendo forza, ispirazione e coesione dalla terra “nella quale tutti possono incontrarsi”, che abitano in comune e condividono. Terra, pace, solidarietà: le tre parole alle quali, non a caso, ci siamo riferiti per fondare la nostra Associazione, che si è costituita attorno a don Ettore Cannavera e che si chiama proprio così, e costruire un nuovo lessico della politica. Tre parole alle quali abbiamo aggiunto, per completare il quadro, il richiamo all’istruzione e al lavoro, perché, come abbiamo visto, il sapere e il capire sono i soli strumenti ai quali l’uomo si può affidare per decifrare quella sua condizione nel mondo che Pietro Soddu pone, giustamente, al centro di qualsiasi progetto politico; e perché senza il lavoro, presupposto insostituibile e perno della sua dignità, l’uomo perde anche la speranza, finendo vittima di quel congegno infernale al quale Illich, ancora lui, paragona il nostro vivere sociale: “La nostra società assomiglia a quella macchina insuperabile che ho visto una volta a New York in un negozio di giocattoli. Era uno scrigno metallico, che, premendo un pulsante, si apriva per mostrare una mano meccanica le cui dita cromate si protendevano verso il coperchio, lo abbassavano e lo chiudevano a chiave dall’interno. Trattandosi di una scatola, ti saresti aspettato che si potesse estrarne qualcosa, e invece conteneva soltanto un meccanismo per chiudere il coperchio. Questo bizzarro congegno è il contrario esatto della ‘scatola’ di Pandora”.

Una società che non assicura il lavoro a coloro che vivono all’interno di essa, che è fatta solo per chiudere il suo coperchio, è asfittica e sterile, e va paragonata a quel fico contro il quale Gesù scaglia la sua maledizione nella bellissima poesia di Boris Pasternak che si intitola Čudo  (Miracolo), che fa parte della raccolta Stichotvorenija Jurija Živago  (Poesie di Jurij Živago), inserita – come un testo nel testo – nel romanzo Doktor Živago:

Andava da Betania a Gerusalemme,

oppresso anzi tempo dalla tristezza dei presentimenti.

Sull’erta un cespuglio riarso;

fermo lì su una capanna il fumo,

e l’aria infuocata e immobili i giunchi

e assoluta la calma del Mar Morto.

 E in un’amarezza più forte del mare,

andava con una piccola schiera di nuvole

per la strada polverosa verso un qualche alloggio

(andava) in città a una riunione di discepoli.

 E così immerso nelle sue riflessioni

che il campo per la melanconia prese a odorare d’assenzio.

Tutto taceva. Soltanto lui là in mezzo.

E la contrada giaceva inerte in un deliquio.

Tutto si confondeva: il calore e il deserto,

e le lucertole e le fonti e i torrenti.

 Un fico si ergeva lì dappresso

senza neppure un frutto, solo rami e foglie.

E lui gli disse: “a cosa servi?

Che gioia m’offre la tua aridità.

 Io ho sete e fame, e tu sei un fiore infecondo,

e l’incontro con te è più squallido che col granito.

Com’è offensiva la tua sterilità!

Resta così, dunque, sino alla fine degli anni”.

Per il legno passò il fremito della maledizione

come la scintilla del lampo nel parafulmine.

E il fico divenne cenere all’istante.

 Avesse avuto allora un attimo di libertà

le foglie, i rami, le radici e il tronco,

le leggi della natura sarebbero forse intervenute.

Ma un miracolo è un miracolo e il miracolo è Dio.

Quando siamo smarriti, allora, in preda alla confusione,

istantaneo ci coglie alla sprovvista.

 Questo componimento è la trasposizione in versi di un episodio evangelico (Marco, II, 12-14 e Matteo 21, 18-22) e ci presenta un momento in cui il protagonista, l’uomo, segnato da un profondo bisogno di contatto, calore, condivisione, incontra come unico essere vivo in una natura bruciata e desolata un albero verde di foglie e di rami ma incapace di offrirsi in dono, di fruttificare per l’altro da sé. Esso simbolizza dunque l’antagonista sterile, quello che Cristo si trova di fronte nel suo cammino, e che ha fatto la scelta opposta alla sua.

Il “noi” a cui passa in modo repentino e inatteso il penultimo verso con “quando siamo smarriti”, vero e proprio cuore del testo, indica come per Cristo l’albero muto rimandi al suo interlocutore possibile, all’immagine di quello che potrebbe essere lui stesso se scegliesse, come il mondo farisaico che gli sta intorno, l’ “allontanamento dal calice”, cioè il chiudersi in se stesso, in una condizione protetta di relativo benessere e sicurezza (le foglie, i rami), dimenticando la sua missione salvifica. E quello stesso “noi”  indica come il medesimo dilemma valga per l’io poetico di Jurij Živago e per l’autore Boris Pasternak, che in momenti difficili e decisivi dell’esistenza sono chiamati a sconfiggere l’insidioso nemico presente all’interno del loro essere, a rifiutare la parte più oscura del loro animo, la loro fragilità umana non ancora domata, per superare paure ed egoismi e aprirsi all’altro da sé.

Quello che ne emerge è dunque l’esaltazione dell’acquisizione della forza e della capacità di condividere con gli altri, saldando la frattura tra l’individuale e il sociale e trasformando l’«io» in «noi», l’uomo in comunità, in grado di porsi come autentica integrazione e sintesi delle esigenze individuali e collettive.

Quella forza e quella capacità che sono al centro di questo libro di Pietro Soddu e costituiscono, a mio parere, l’autentico nucleo essenziale del suo messaggio politico. L’auspicio che possiamo e dobbiamo trarne è che non si tratti di sole parole, e che questo suo messaggio non sia soltanto un appello retorico, ma si traduca in fatti, in azione quotidiana concreta, capace di imprimere una svolta autentica alla disastrata gestione della cosa pubblica.

La Sardegna, il cui tempo non aspetta tempo, per riprendere il titolo del libro, ha urgente e impellente bisogno di questo cambiamento.

*Testo per l’iniziativa organizzato Lunedì 17 Marzo 15:30 alla Mediateca per la presentazione del libro di Pietrino Soddu organizzata da LAMAS, Fondazione Sardinia, Terra pace solidarietà, Art. 21 e della rivista on line www. sardegnasoprattutto.com.

 

1] Le tre citazioni sono tratte dalla poesia “Uomini” di Evgenij Evtušenko (In Non sono nato tardi, traduzione di Ignazio Ambrogio, Editori Riuniti, Roma 1962).

5 Comments

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  3. Eugenio Aymerich

    Bellissmo articolo su un bellissimo libro-saggio.
    Sempre lucido e raffinata l’analisi del Prof. Silvano tagliagambe su un saggio di uno dei politici sardi più illuminati del dopoguerra.

  4. Marinella Lorinczi

    Controllare, per l’etimologia di ingl. understand e ted. verstehen , per lo meno l’online Etymological Dictionary, che ricostruisce e discute un significato originario del tipo “stare davanti” per entrambi i verbi, o “stare nel mezzo” per il verbo inglese ( under = lat. inter). Del resto “stare sotto” per “comprendere” non avrebbe comunque molto senso, mentre da sopra (cfr. in greco) o da davanti si com-prende con la vista o con la mente. Tanto per fare un po’ i pignoli. Me ne scuso.

  5. Cara Marinella, ti ringrazio per la precisazione, ma io mi riferivo a un’operazione logica ben precisa, quella di «disquotation» – espressione introdotta da Quine. Si tratta di quel processo di ascesa semantica (stare sopra) che ci mette in condizione di partire, anziché dalla realtà, dalla verità o falsità di un enunciato mediante il quale cerchiamo di descriverla. Questa operazione è segnata dall’uso delle virgolette che indicano che un enunciato racchiuso entro di esse è menzionato e non solo usato. Una volta compiuta questa ascesa al livello semantico superiore bisogna ridiscendere alla realtà, e quindi «stare sotto» alla quota precedentemente raggiunta. Questo gioco tra «stare sopra» e «stare sotto» è fondamentale per comprendere la teoria della verità di Tarski, basata su quelli che sono noti come bicondizionali tarskiani , ovvero gli enunciati del tipo di “L’enunciato ‘La neve è bianca’ è vero se e solo se la neve è bianca”. Una delle maggiori intuizioni filosofiche di Tarski è che ogni bicondizionale tarskiano è, per usare le sue stesse parole, una definizione parziale della verità, e di conseguenza i bicondizionali tarskiani i cui membri destri esauriscono gli enunciati di un linguaggio formale dato costituiscono, presi insieme, una definizione implicita del significato di “vero” per gli enunciati di quel linguaggio formale. Questa intuizione, grazie alla sua grande profondità e disarmante semplicità, è diventata una protagonista della moderna filosofia contemporanea.
    In questo quadro, che è quello al quale io faccio riferimento nel mio articolo, le accezioni di «stare davanti» o «stare nel mezzo» che tu proponi non sarebbero di alcuna utilità.

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