Chi sbaglia paga [di Ettore Cannavera]

cover

Il libro di cui vorrei parlare, Chi sbaglia paga, è abbastanza particolare. Non è un saggio, non è un racconto, soprattutto non è una raccolta di lettere dal carcere, come tante ce ne sono. Per spiegare cosa sia ho bisogno di raccontare come è andata. Un giorno, anni addietro, ricevo una lettera dal carcere di Uta.

È da più di mezzo secolo che i detenuti mi scrivono e lo fanno per chiedere aiuto, attenzione, considerazione, conforto.  Mi scrivono perché sanno che rispondo a tutti. Però questa lettera è diversa dalle altre; una richiesta inconsueta: il mittente mi domanda se può pubblicare qualche articolo sulla nostra rivista trimestrale. Mi dice di averla letta in carcere e che vorrebbe contribuire raccontando la detenzione dall’interno, dalla sua cella. Sergio Abis l’ho conosciuto così.

In seguito, nei suoi articoli apparsi sulla rivista della nostra comunità, di cui è divenuto assiduo collaboratore, ho trovato spunti di riflessione interessanti. In particolare, Sergio non parla solo di diritti umani negati, come avviene di solito per coloro che, già ospiti del carcere, ne raccontano per esperienza diretta. Si sofferma invece su un aspetto parallelo e poco considerato, quello della rieducazione, proponendo una lettura atipica del rapporto conflittuale di un cittadino privato della libertà – lecitamente, s’intende, in galera si finisce perché si è violata la legge – con un’amministrazione carceraria che tende a ridurre i diritti umani ben oltre quanto stabilito per legge.

Secondo Sergio, il mancato rispetto dei diritti umani in carcere – realtà terribile quanto innegabile – non è una stortura contingente di un sistema mal gestito; né il risultato di manchevolezze da parte di quanti sono deputati al controllo della popolazione carceraria. È piuttosto un problema di fondo derivante da una scorretta impostazione del sistema carcerario nel suo complesso: in Italia, la prigione non è strutturata per educare (come vorrebbe la Costituzione all’Art. 27) ma per contenere, per segregare, ed è per questo che diventa implacabilmente disumana.

Non solo: coloro che ritengono possibile correggere il carcere con provvedimenti tampone, nel tentativo di rimediare agli aspetti più eclatanti riguardo la disumanità delle e nelle prigioni, si illudono; spesso, accorgimenti studiati per alleviare la carenza di diritti umani ottengono risultati imprevisti, privilegiando chi in carcere è meno interessato al problema e affliggendo invece i più deboli, coloro che vivono in condizioni peggiori la detenzione.

Secondo Sergio, quindi, l’unico modo per risolvere il problema della disumanità del carcere è concepirlo diversamente: renderlo educativo. Un carcere che rieduchi è infatti incompatibile con la disumanità. E risulta particolarmente utile per la società, in quanto restituisce alla collettività persone con poca propensione alla delinquenza.

La sua non è una posizione diffusa. Di solito si affrontano problemi contingenti. Ad esempio quando ci scappa il morto; quando i carcerati si suicidano e finiscono sui giornali; o trapela dall’ambiente che ci sono poliziotti accusati di torture. O quando finalmente un intellettuale riesce a farsi sentire e denuncia il sovraffollamento, la sporcizia, l’impossibilità di cure mediche adeguate. Ne sentiamo parlare se la Cedu, la Corte europea per i diritti dell’uomo, sanziona l’Italia. E in tal caso si propongono provvedimenti indirizzati alla soluzione della stortura di turno, finita inopinatamente nei telegiornali all’attenzione delle persone.

Sergio afferma l’inutilità del tentativo, che pure apprezza, con la sensibilità di chi ci è passato e sa, per esperienza dolorosa, quanto e come il carcere possa essere disumano. Non lo afferma apoditticamente: la sua è un’analisi certosina di ogni aspetto della carcerazione, del vivere giornaliero in cella. Decostruisce molti luoghi comuni e riassembla una realtà che, anche per chi come me opera in ambito carcerario da più di mezzo secolo, assume nuove connotazioni e nuovi significati. Descrive e analizza un carcere per certi versi sconosciuto ai più.

Per questo suo connubio di esperienza diretta e desiderio di analisi, gli ho chiesto di scrivere un libro sulla nostra esperienza comunitaria quando, nel 2019, la Comunità La Collina ha compiuto venticinque anni di attività. Un quarto di secolo speso ad accogliere e rieducare detenuti giovani adulti per restituirli alla società come persone in grado di assumere un ruolo al suo interno, come ciascuno di noi.

Ho pensato che un ex detenuto, convinto che la rieducazione sia il perno attorno al quale far ruotare un carcere umano e capace di agire secondo costituzione (cioè punire, si, ma per rieducare e senza colpire i diritti inalienabili dell’essere umano), potesse essere la persona adatta per raccontare la nostra esperienza. Perché anche io sono convinto che la rieducazione sia la strada maestra per un carcere umano e utile.

Così, dato che Sergio aveva concluso la pena, l’ho invitato a trascorrere un po’ di tempo con noi, in comunità, affinché potesse confrontare l’esperienza della detenzione in una casa circondariale con quella proposta da noi, nel nostro carcere alternativo. Sì, non uso a caso questa definizione della nostra comunità. Chi sconta la pena da noi non è libero, non può fare ciò che gli aggrada, come pensano in troppi, ma deve seguire pedissequamente le prescrizioni del giudice di sorveglianza e le nostre regole. Il nostro è un carcere. La differenza sostanziale è che l’abbiamo concepito per essere rieducativo e non semplicemente costrittivo.

Dunque, per svolgere il compito che gli ho affidato, Sergio si è adattato a vivere un breve periodo in carcere, nel nostro. Il risultato è Chi sbaglia paga, scritto da Sergio Abis e pubblicato da Chiarelettere, con prefazione di Gherardo Colombo. Il libro descrive dapprima le condizioni di detenzione in un carcere segregativo. Lo fa a partire dalle parole dei carcerati, leggendo tra le righe di alcune delle lettere che ho ricevuto in tutti questi anni.

Testi apparentemente banali e scontati da cui Sergio estrae informazioni e storie considerando dettagli che solo chi è stato in carcere è in grado di apprezzare. Ci conduce in un universo di drogati, di handicappati mentali, di extracomunitari, di esseri umani finiti dentro principalmente perché emarginati, prima ancora che colpevoli di un reato. L’universo del carcere vero, diverso e distante dagli stereotipi giornalistici e letterari.

Chi leggerà rimarrà sorpreso dalla perizia dell’autore nell’interpretare particolari apparentemente minimi. Proprio all’inizio del libro, ad esempio, distilla la storia di un ragazzo detenuto da una busta. Non dal testo della lettera in essa contenuta, letto di seguito a integrazione della storia. Oppure trae informazioni dal tipo e qualità della carta adoperata per vergare le missive. Dal modo in cui si evolve la grafia nel corso del tempo e a volte nella stessa lettera. Dalla distribuzione del testo. O da pochi accenni apparentemente oscuri che all’esperienza di un ex carcerato risultano invece fin troppo chiari.

Ne risulta un carcere non solo inumano e diseducativo, che peggiora le persone, ma soprattutto un’istituzione che non esito a definire stupida. Perché costosissima e inutile, non essendo in grado di restituire alla società persone in grado di integrarsi.

Se ne può uscire? È la seconda parte del libro. In cui si racconta la nostra storia, il modo in cui siamo nati e successivamente, facendo parlare sempre le lettere dei detenuti che mi hanno scritto, descrive i nostri protocolli educativi: la maniera in cui rieduchiamo i nostri ospiti. E, soprattutto, i risultati. I numeri. L’autore non è un sociologo o uno psicologo: ha condotto studi scientifici e affrontato una vita di lavoro da tecnico. È abituato a ragionare con concretezza, dunque numeri, statistiche, dati. Non opinioni. La nostra comunità ha successo nel rieducare perché i nostri metodi funzionano: lo dicono i risultati incontestabili. Perché chi sconta la pena da noi smette di delinquere. Chi sconta la pena nel carcere tradizionale ricomincia non appena uscito.

Per chi è questo, libro? Per come è stato scritto, può essere letto da tutti. Non ci sono tecnicismi né citazioni dotte. Quando Sergio ha cominciato a scriverlo aveva in animo di farlo leggere anche ai detenuti i quali, come sa bene, sono in gran parte persone di bassa scolarità e tutt’altro che propense alla lettura. D’altra parte, il libro contiene informazioni e considerazioni che anche gli addetti ai lavori, quanti gravitano attorno al mondo della detenzione – magistrati, avvocati, operatori, volontari – possono trovare nuove. A volte, credo, anche sorprendenti.

Insomma, una lettura per chi desideri informazioni sul carcere visto da un’angolazione inconsueta. Mi piace pensare che in questo libro ci sia il carcere vero e la nostra piccola proposta per concepirne uno utile. E umano.

Concludo con qualcosa cui sono poco abituato: due righe di pubblicità. La nostra comunità considera la cultura parte integrante del programma rieducativo. Noi siamo votati alla cultura. La accogliamo come apporto esterno alla rieducazione, la diffondiamo come messaggio concreto di un carcere possibile. Per questo, chi fosse interessato ad ascoltare quanto abbiamo da dire in termini concreti ci troverà disponibili a incontri, discussioni, seminari. Fa parte del nostro DNA.

Sergio Abis – Chi sbaglia paga – Chiarelettere. Prefazione di Gherardo Colombo ed Ettore Cannavera. € 16,90 (ebook € 9,99).

 

One Comment

  1. Mario Pudhu

    Interessante meda!
    Lu cherzo lèzere.

Rispondi a Mario Pudhu Annulla risposta