Zemmour, un ideologo per la società del rancore [di Nicolò Migheli]

 

In un articolo comparso su Le Monde Diplomatique nel novembre 2015. Pierre Rimbert si chiedeva se gli intellettuali francesi fossero diventati dei néoréacs, dei nuovi reazionari. Si riferiva a Michel Onfray, Alain Finkielkraut, Éric Zemmour, Jacques Julliard, Régis Debray, Jean-François Kahn.

Intellettuali- molti dei quali conosciuti anche qui perché le loro opere sono state tradotte- che da diverse provenienze, alcuni di questi con un passato di sinistra, erano finiti per abbracciare la categoria dello Scontro di Civiltà e con quella interpretare la nostra contemporaneità. Rimbert non era sorpreso, scriveva che la Francia aveva già conosciuto teorizzazioni simili.

Un filo nero unisce questi agli antimoderni dell’Ottocento, gli anticonformisti degli anni ’30, i nuovi ussari degli anni ’50 e i nuovi reazionari del 2002. Corrente di pensiero che nell’ultima comparsa è diventata imprenditrice della paura. Con loro è impossibile dibattere di niente- sostiene Rimbert- soprattutto dell’immigrazione.  Onfray, Finkielkraut et Zemmour si erigono a porta voce di un popolo che sarebbe privato del diritto dell’insulto, del parlare male, dal politicamente corretto, imposto da un élite benpensante.

Sei anni fa ci si poteva permettere il lusso di liquidarli con un sommario mais non, ils faint du bruit pour vendre ses livres. Tanta agitazione solo per le promozioni editoriali. Zemmur ha venduto 500 mila copie del suo Le Suicide français edito nel 2014. Ora che nei sondaggi per le presidenziali– il 17%- è pari a Marie Le Pen, ci si consola dicendo che nel secondo turno contro Macron non passerà.

Il polemista non ha mai detto che vuole candidarsi. Lui da giornalista conosce la macchina mediatica, se lo facesse oggi accenderebbe su di sé un’attenzione che potrebbe bruciarlo. L’indeterminatezza, il dire e non dire, gli permetteranno di usare le affermazioni dei possibili rivali, controbatterle, senza esserne compromesso. Se si presenterà lo farà all’ultimo, intanto userà la candidatura degli altri per consolidare la propria notorietà.

Chi è Éric Zemmour? Giornalista, ora privo del tesserino, condannato per incitazione all’odio religioso contro i musulmani, licenziato dal Le Figaro ma riassunto come editorialista, è punta di lancia di CNews, una tv di Bolloré che sta diventando la Fox francese e con i suoi interventi ne ha triplicato l’audience. Zemmuor scrive meglio dei suoi sodali, ha tesi semplici che però ricopre con riferimenti dotti che fanno molta presa nel pubblico di destra.

La globalizzazione è da abolire, le frontiere interne alla Ue vanno ripristinate, la Francia deve ritrovare la sua Grandeur affrancandosi dagli Stati Uniti e dalla Germania. L’Islam è il nemico dell’identità francese, la Francia si è svirilizzata – in questo ricorda i neocon americani che dicevano che gli Usa erano Marte e l’Europa Venere-, è in atto un complotto del femminismo per effeminare ulteriormente il Paese dominato da una lobby omossessuale.

Lui si definisce ebreo-berbero, di ascendenze algerine, trova però che l’unico baluardo sia l’integralismo cattolico, la laicità dello Stato deve permanere per difendersi dall’islamizzazione strisciante. Revisionista sul fascismo di Vichy, dichiara che Pétain protesse gli ebrei, nonostante suoi parenti vennero sterminati nei lager nazisti.

Il centro delle sue elaborazioni è il popolo francese. Una categoria che nelle sue parole assume connotati metafisici, in lui non vi è nessuna partecipazione alle istanze popolari, delle vertenze sul lavoro o sulla disoccupazione. Parteggiò per i Gilet Gialli ma li abbandonò perché, secondo lui, egemonizzati dalla sinistra. Concetto molto vago ai suoi occhi, tanto che anche Marie Le Pen e il suo Rassemblement per lui sono di sinistra. Nessuna teorizzazione rosso-bruna: conservatori nei valori e progressisti nel lavoro.

La stessa categoria di fascismo non è molto applicabile alla sua figura, mancandogli l’aspetto sociale di quella ideologia. Un reazionario antimoderno, questo sì. Lui si definisce con una certa contraddizione gollista-bonapartista. Del gollismo gli manca l’antifascismo. Quanto al bonapartismo, più un riferimento agli epigoni che a Napoleone. La sua discendenza ideale sarebbe la Vandea e quella tradizione che gli arriva tramite Vichy. Pensiero che nega i Lumi.

Un fenomeno mediatico scrivono di lui i giornalisti dell’Esagono. Negli Usa lo dicevano anche per Donald Trump. Nel tentare di capire la crisi odierna si è ricorsi alla categoria dei perdenti della globalizzazione. Con il termine populista si è tentato di nascondere la deriva neo-nazista, neo-fascista e reazionaria di quei movimenti. Dando loro dignità di popolare che non hanno.

Sono manifestazione di un pensiero antimoderno che attraversa tutte le classi sociali. Zemmour e sodali usano quel risentimento per raggiungere i loro obiettivi, per il momento editoriali e di notorietà. Trump insegna che facendo leva su quel sentimento si può diventare presidenti. Zemmour lo sarà?

Difficile dirlo, ma la destra europea ha trovato uno dei suoi ideologi. Il più abile e colto.

 

Lascia un commento