La difficile tutela del paesaggio [di Paolo Scarpellini]

*Di seguito la Relazione integrale tenuta da Paolo Scarpellini, già Direttore regionale del MiC, nel corso del Primo Seminario di Minima Juridica: Aspetti legislativi della tutela del paesaggio. Il Seminario, organizzato sabato 5 marzo dall’Associazione Amici del Museo e dal think tank Sarda Bellezza, si è tenuto nella Pinacoteca nazionale nella Cittadella dei Musei di Cagliari.

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Il rapporto tra i due concetti giuridici di paesaggio e di patrimonio storico artistico si incontra per la prima volta in Italia nella nostra Costituzione (1947), e si consolida attraverso la nozione di paesaggio culturale nella Convenzione europea del paesaggio, che tuttavia “fa riferimento a quella adottata nel 1992 dal Comitato del Patrimonio Mondiale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), istituita a Parigi il 4 novembre 1946, a proposito dei World Heritage Cultural Landscapes, letteralmente Paesaggi culturali del patrimonio mondiale” (1).

Per la verità nella dicitura letterale dell’art. 9 Cost. i due concetti di paesaggio e di patrimonio storico artistico sono congiunti ma non integrati, per la distinta derivazione del primo dalla nozione di bellezza naturale, e per il secondo da quella di monumento/opera d’arte.

Del resto, anche la recentissima aggiunta al medesimo art. 9 (La Repubblica “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”) ha forma tutt’altro che integrata rispetto al punto precedente, tanto che qualcuno ha ravvisato, nella applicazione del nuovo dispositivo, il paradossale rischio di contrapposizione tra i due principi della tutela ambientale “estetica” e di quella “sostanziale”.

Ad ogni modo la inscindibilità del concetto di paesaggio dal concetto di patrimonio culturale è chiaramente sancita dal Codice Urbani (D.Lgs. 42/2002, art. 2, comma 1): “Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici”.

Il paesaggio culturale deve dunque considerarsi sintesi di geografia e storia di un luogo o di un ambito territoriale: ma se nel passato le mutazioni del paesaggio, talvolta anche incisive, avvenivano lentamente e venivano assorbite in maniera equilibrata, nella nostra epoca le trasformazioni possono essere repentine e talvolta brutali, con mezzi potenti e veloci, che stravolgono in brevissimo tempo la percezione dell’ambiente che ci circonda, generando spesso sconcerto oltre che danni. Ne consegue la necessità di governare le trasformazioni, mediante normative a diversi livelli, affinché esse non siano lesive dei caratteri del paesaggio culturale investito.

Per comprendere appieno i molteplici valori, di cui un bene culturale o paesaggistico è portatore, occorrono specifiche sensibilità e competenza, che si acquisiscono mediante studi specifici e intensa esperienza nel campo della salvaguardia. Si badi, infatti, che l’azione di tutela, giuridica e materiale, è rivolta ai valori piuttosto che agli oggetti, nel senso che si intendono salvaguardare i caratteri di interesse che i beni e i siti detengono, consentendo trasformazioni che mutuino tali caratteri, non pretendendo dunque l’imbalsamazione di luoghi ed oggetti, e anzi permettendo “la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati” (Codice Urbani, art. 6 comma 1).

L’estensione progressiva del concetto di bene culturale, a partire dal monumento e dall’opera d’arte oggetto di attenzione e protezione anche nei secoli scorsi, ha condotto a censire un numero sempre maggiore di beni meritevoli di tutela, per il loro interesse paesaggistico, architettonico, pittorico, scultoreo, archeologico, librario, archivistico, numismatico, documentario (ecc.).

I principali valori sottesi al bene culturale sono di ordine storico (documentario, mnemonico), estetico (artistico, paesaggistico), identitario (simbolico, sociale), economico (immobiliare, funzionale), ma ne esistono molti altri di rango inferiore o di maggiore rarità. Il riconoscimento di questi valori è un processo articolato e complesso, che deve essere svolto nel rispetto di ogni relativa competenza e di ogni interesse coinvolto.

Nel corso della mia lunga carriera al servizio dello Stato nei ranghi del Ministero dei Beni Culturali (oggi Ministero della Cultura), svolto in molti luoghi differenti del territorio nazionale dapprima come funzionario e poi come dirigente, ho maturato una personale convinzione, circa le cause della difficoltà della tutela del patrimonio culturale/paesaggistico.

Una di queste cause, a mio avviso, è la grande e mutevole complessità normativa, ed in particolare l’intreccio tra le norme riguardanti le tre materie, la tutela storico culturale (teoricamente esclusiva dello Stato), la tutela paesaggistica (competenza concorrente Stato-Regione), l’urbanistica (competenza regionale): le norme si accavallano, e peraltro mutano con frequenza, il che rende quasi impossibile determinare una prassi agevole per la loro applicazione, mentre sono frequenti i conflitti di interessi pubblici in sede di valutazione dei progetti.

Infatti, vi è una sorta di individualismo burocratico, nel senso che ciascuna istituzione tende ad esprimersi per proprio conto, spesso ignorando o trascurando le ragioni degli altri soggetti, giungendo a manifestare pareri molto spesso inconciliabili. Un’altra causa risiede nella tendenza, da parte di committenti e progettisti, a difendere ad oltranza la loro soluzione progettuale, ponendola talvolta come condizione unica e imprescindibile per la realizzazione dell’opera, quando invece esiste quasi sempre un ventaglio di possibilità tecniche, alcune delle quali possono determinare un migliore inserimento dell’opera stessa in contesti paesaggistici anche molto delicati.

Chiaramente il movente è spesso diverso: il committente mira ad una soluzione meno costosa e più funzionale ai propri scopi, mentre il progettista tende talvolta a considerare il proprio progetto un capolavoro intangibile, anche se talvolta consiste in una imitazione di “capolavori” riconosciuti come tali dalla moda corrente.

Altro fattore destabilizzante della azione di salvaguardia è la mutevolezza degli assetti politici, specialmente quando il cambio di colore comporta la necessità di capovolgere l’impostazione precedente, ingerendo nelle attività amministrative degli organi preposti alla tutela: eppure esiste una classe di funzionari statali, dotati di robusta competenza, ai quali dovrebbe comunque restare affidata la protezione incondizionata del nostro patrimonio culturale/paesaggistico, con il solo obbligo del confronto preventivo con soggetti portatori di altri interessi, oltre che della motivazione dei propri atti.

A fronte dei principi primari e assoluti contenuti nell’art. 9 della Costituzione, non derogabili né subalterni ad altre priorità di carattere economico sociale (salvo vere emergenze, ovviamente), il nostro ordinamento ha individuato una struttura ministeriale deputata alla loro applicazione, il cui funzionamento non dovrebbe essere mai inceppato da contingenti influenze politiche.

Se è vero che la libertà di opinione e di stampa è anch’essa garantita dalla Costituzione, e se è vero che sulle trasformazioni architettoniche, urbane e paesaggistiche ciascun cittadino e ciascuna comunità ha il pieno diritto di esprimersi (meglio se preventivamente), le soluzioni circa la fattibilità di un’opera pubblica andrebbero determinate mediante il pubblico dibattito (peraltro previsto dalle norme) e nell’ambito di tavoli tecnici aperti alle diverse istituzioni competenti, a vario titolo, ad esprimersi nel merito. Ma la soluzione deve essere concertata e condivisa, e non il prodotto di una pedissequa mediazione né di una unilaterale imposizione, e deve essere sostenibile e compatibile con il contesto sociale, paesaggistico, ambientale e territoriale.

Sulla base di queste considerazioni, sono convinto della urgente necessità di una radicale semplificazione normativa, tale da rendere agevole e rapida ogni procedura, assicurandone la massima trasparenza, senza nulla togliere alla qualità della salvaguardia ed alla partecipazione delle istituzioni competenti.

Credo sia dunque necessario un nuovo Testo Unico in materia di tutela del patrimonio culturale (e dunque anche paesaggistico) con poche norme chiare e facilmente applicabili, senza rimandi e senza eccezioni, e contestuale abrogazione di ogni precedente disciplina legislativa e regolamentare.

Del resto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza impone una revisione normativa fondata sulla massima semplificazione, che però non va interpretata come strumento di elusione dei pareri di competenza delle varie istituzioni, bensì come riforma delle modalità procedurali, tale da assicurare anche la massima concertazione fin dall’inizio dei procedimenti di programmazione o di valutazione degli interventi.

I limiti posti dalla Costituzione alla iniziativa economica privata (art. 41), dapprima relativi alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana, sono stati di recente estesi alla tutela dell’ambiente e della salute. Già da tempo Salvatore Settis collocava l’impostazione legislativa, fin da quella degli Stati preunitari, in un’unica prospettiva che risale alla cultura giuridica romana: il legatum ad patriam o dicatio ad patriam (lascito alla patria, ovvero celebrazione della patria) è il principio giuridico secondo cui quanto venga posto in luogo pubblico, anche da un privato, ricadeva nella condizione giuridica di res populi Romani, e comportava la costituzione di una sorta di servitù di uso pubblico. (2)

A questo presupposto viene fatta risalire dunque una cultura comune che, con intensità diversa, ma sempre costante, ha accompagnato qualsiasi legislazione italiana in materia di beni culturali e ambientali. E infatti solo in Italia si ha avuto un tale slancio di tutela per le cose d’arte, in considerevole anticipo rispetto agli altri Paesi dell’Europa moderna. (3)

Il precursore del riconoscimento dello strettissimo legame tra oggetto e contesto è indubbiamente Antoine Chrysostome Quatrémere de Quincy, secondo il quale (Lettres, 1796) i beni hanno sempre bisogno, per essere pienamente godibili e fruibili, del luogo nel quale sono nati e vissuti, e questo avrà ripercussioni nella politica conservativa romana: il 9 luglio 1810 verrà istituita una Commissione dei monumenti e delle fabbriche urbane, e saranno indicate, a differenza dei precedenti editti papali, precise norme operative da osservare. Dopo la Restaurazione, infine, si avrà l’editto del cardinale Pacca, con cui avverrà la piena maturazione del concetto di bene culturale e della sua importanza sociale.

Le prime leggi di tutela dello Stato Italiano nacquero tra il 1909 e il 1922. Anticipatoria, ma episodica e particolare, era stata la legge Rava 16 luglio 1905, n.411, per la conservazione della pineta di Ravenna, luogo celebrato da Dante (la “divina foresta spessa e viva” del Canto XXVIII Purgatorio della Divina Commedia) e Boccaccio (Decamerone, novella V), ritratto da Botticelli, e poi teatro delle gesta di Anita e Giuseppe Garibaldi.

Alla legge 364 / 1909 venivano assoggettate “le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico o artistico. Ne sono esclusi gli edifici e gli oggetti d’arte di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquant’anni. Tra le cose mobili sono pure compresi i codici, gli antichi manoscritti, gli incunabuli, le stampe e incisioni rare e di pregio e le cose d’interesse numismatico.”

La legge 688 / 1912 introduceva misure di rispetto ambientale dei beni culturali, precisando che “nei luoghi nei quali si trovano monumenti o cose immobili soggette alle disposizioni della presente legge, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazione di piani regolatori, possono essere prescritte dall’autorità governativa le distanze, le misure e le altre norme necessarie, affinché le nuove opere non danneggino la prospettiva e la luce richiesta dai monumenti stessi”.

Infine la legge 778 / 1922 (Legge Croce, per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico) trova per la prima volta attuazione giuridica il riconoscimento del valore paesaggistico dei luoghi, non necessariamente come cornice di monumenti, bensì per il proprio intrinseco valore estetico o storico: «Sono dichiarate soggette a speciale protezione le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria. // Sono protette altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche».

Queste tre leggi costituiscono l’embrione della normativa italiana attuale, ed individuano i valori da salvaguardare in altrettante famiglie: quelli afferenti all’importanza intrinseca del singolo bene, quelli relativi al suo rispetto ambientale, e quelli riguardanti i paesaggi di pregio estetico. A queste è stata di recente aggiunta una quarta famiglia, afferente la salute delle persone e dell’ambiente, che deve considerarsi integrata con le altre.

Va da sé che queste famiglie per noi oggi sono sempre più imparentate, fino a divenire un unico apparato organico e indissolubile, alla cui protezione riconosciamo un interesse primario ed assoluto, nel quadro dei principi affermati dalla nostra Carta costituzionale.

Nel 1939 le leggi Bottai n. 1089 (tutela delle cose di interesse storico e artistico) e n. 1497 (tutela delle bellezze naturali) ampliano i generi di manufatti assoggettabili a tutela, appunto quali beni rappresentativi della identità nazionale, intesa in senso sociale. Le leggi Bottai inoltre articolano e disciplinano in maniera più dettagliata le fattispecie e le modalità della tutela, le procedure e le sanzioni, e sono il caposaldo della attuale legislazione italiana in materia.

Al 1967 risalgono i lavori e la Relazione della Commissione Franceschini, cioè la Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico archeologico, artistico e del paesaggio, deputata a formulare indirizzi aggiornati per una revisione normativa che culminerà con la istituzione del Ministero dei Beni Culturali (1975), destinato ad ereditare le competenze della Direzione Generale Antichità e Belle Arti, inquadrata nel Ministero dell’Istruzione.

Se con il D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, l’art. 82 (Beni ambientali) aveva delegato alle Regioni le funzioni relative alla protezione delle bellezze naturali, la Legge Galasso 431 / 1985 reintroduce il controllo statale sulla tutela del paesaggio, ravvisando l’inerzia delle Regioni nell’attività di protezione. Inoltre, invita le Regioni ad elaborare i Piani Paesistici, come strumento disciplinare delle trasformazioni del territorio nel rispetto dei valori del paesaggio.

Il Decreto Legislativo 490 / 1999 ed il successivo Codice Urbani (Decreto Legislativo 42 / 2004) conservano sostanzialmente intatti i contenuti delle leggi Bottai del 1939, ma dettagliano ulteriormente la casistica e le procedure. Inoltre il Codice Urbani ha il merito simbolico di fondere definitivamente la tutela dei beni culturali con quella del paesaggio, ed è stato oggetto di modifiche e aggiornamenti, anche molto recenti, che non ne hanno alterato l’impianto, ed hanno introdotto per lo più specifiche procedurali.

 La protezione del patrimonio culturale è dunque competenza della Repubblica, in tutte le sue articolazioni, mentre la tutela paesaggistica, nella sostanza, è materia di competenza concorrente Stato / Regione, poiché a quest’ultima la legge riserva il governo del territorio. Ma in realtà tutte le istituzioni dovrebbero adoperarsi affinché i beni culturali e ambientali vengano efficacemente salvaguardati, curando che le immancabili trasformazioni non incidano sui valori di pregio e di importanza di cui i beni sono portatori.

Sebbene la normativa, la giurisprudenza e la dottrina tendano sempre di più a considerare unitario il patrimonio culturale, appunto formato da beni culturali e beni paesaggistici, la tutela formale delle due categorie è tuttora in pratica distinta: i beni culturali sono tutelati dalla Parte II del Codice Urbani, i beni paesaggistici sono tutelati dalla Parte III del medesimo.

Come è noto, il Codice Urbani (artt. 12-14) individua due fattispecie per il formale riconoscimento dell’interesse culturale, la “verifica” (per immobili di proprietà pubblica) e la “dichiarazione” (per immobili di proprietà privata), purché sussista il requisito dei 70 anni di età. L’esito positivo di entrambe le procedure consiste in un atto formale, un decreto, emanato dall’organo ministeriale competente (mutato nel tempo, oggi è il Segretariato Regionale del MiC) e comunemente chiamato “vincolo”.

Da notare che, per gli immobili pubblici, l’assenza di verifica comporta un regime cautelativo di salvaguardia, mentre per gli immobili privati (ancorché di grande interesse) tale regime può instaurarsi solo a seguito dell’avvio del procedimento di dichiarazione. Non deve quindi stupire il fatto che monumenti di proprietà privata di eccezionale valore storico o architettonico (ad esempio i nuraghi), in assenza di vincolo o delle procedure connesse, possano essere legittimamente demoliti o impunemente alterati.

A questa evidente lacuna può ovviare la pianificazione paesaggistica, introducendo categorie di beni e siti che possono essere rapidamente assoggettati a salvaguardia mediante la loro puntuale individuazione e delimitazione in sede di pianificazione urbanistica comunale: questo importantissimo processo in Sardegna venne attivato dal Piano Paesaggistico Regionale, in collaborazione con il Ministero, ma è stato più volte interrotto, né mi risulta ripristinato.

D’altro canto, lo stesso Codice Urbani (artt. 134-142) consolidava il formale riconoscimento dell’interesse paesaggistico degli immobili, aggiungendo, a quelli tutelati ope legis (boschi, fasce contermini al mare, a fiumi e laghi, ecc.) ed a quelli tutelati con vincoli emanati in precedenza, ulteriori immobili dotati di valore paesaggistico determinando le procedure di assoggettamento alle misure di protezione.

Gli interventi previsti o proposti sui beni tutelati sono oggetto di valutazione e di eventuale autorizzazione da parte del soprintendente statale (per i beni culturali) e dell’amministrazione locale, Regione o Comune, unitamente al soprintendente stesso (per i beni paesaggistici). Onde evitare che la qualità degli interventi che verranno consentiti su un bene o su un’area soggetti a vincolo (sia esso storico o paesaggistico) rischi di alterarne i valori, e dunque per scongiurare una valutazione eccessivamente discrezionale da parte degli organi competenti (soprintendente statale o funzionario regionale/comunale), occorre che il “vincolo” sia “vestito” cioè sia dotato di specifiche ed esplicite “prescrizioni d’uso” per disciplinare chiaramente ogni futuro intervento sul bene e nel suo contesto ambientale.

Tale disciplina andrebbe formulata in sede di consultazione di tutti i soggetti interessati, aventi titolo a partecipare al procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale o paesaggistico. Non dobbiamo dimenticare che la stragrande maggioranza dell’edilizia turistica sulle coste sarde è stata realizzata con regolare autorizzazione paesaggistica, poiché i territori comunali costieri dell’Isola sono quasi tutti soggetti a formale tutela fin dagli anni ’60 e ’70 del Novecento.

Si badi che la tutela non equivale ad inedificabilità o immodificabilità: infatti molti luoghi di eccezionale bellezza sono stati manomessi e alterati, negli ultimi decenni, senza che i soprintendenti e i funzionari regionali o comunali potessero opporsi. Come qualsiasi atto amministrativo, il decreto di “vincolo” può essere impugnato in sede giudiziaria, davanti al TAR e in secondo grado al Consiglio di Stato.

E infatti gran parte dei “vincoli” emanati dagli organi ministeriali vengono impugnati da chi ne ha titolo, e poi spesso sospesi o annullati dalla magistratura amministrativa (TAR e Consiglio di Stato).

Le istituzioni deputate alla tutela sono fatte di persone, che attuano principi e norme in modi diversi, né il fattore umano può essere eliminato, poiché i criteri di riconoscimento dell’interesse storico culturale e/o paesaggistico non possono essere ricondotti ad astratte linee guida uniformi, contrariamente a quanto spesso asserito da osservatori esterni. Tali criteri sono infatti condizionati dalla formazione e dalla esperienza dei funzionari interessati, dalla specificità del contesto territoriale, dalla relatività dell’importanza del bene in questione, dal livello di pericolo della sua perdita o alterazione, e dunque dal grado di priorità di un intervento di salvaguardia.

Le soprintendenze e la magistratura amministrativa sono quindi i protagonisti della tutela monumentale e paesaggistica, le cui procedure sono talvolta contaminate da vizi formali e sostanziali (o ritenuti tali) che ne inficiano l’efficacia. Il “danno grave e irreparabile” invocato dai ricorrenti è quasi sempre di carattere pecuniario o funzionale, mentre il vero danno grave e irreparabile riguarda l’integrità e la sopravvivenza stessa del bene culturale o ambientale: la sospensione dell’efficacia e della esecuzione del “vincolo” consente infatti di manomettere irrimediabilmente l’oggetto della tutela in assenza di controllo.

Sarebbe quindi opportuno studiare sistematicamente la casistica dei motivi di ricorso e di procedimenti giudiziari di annullamento o sospensione degli atti emanati, onde redigere una sorta di Manuale, ad uso delle soprintendenze che istruiscono i procedimenti di verifica e dichiarazione, per la formulazione di “vincoli” il più possibile indenni da vizi.

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NOTE

(1) GENTILI Marco, Paesaggi Culturali (2020)

(2) SETTIS Salvatore, Paesaggio costituzione cemento (Torino, 2010)

(3) GENTILI Marco, cit.

 

 

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