Il Coronavirus e il Principio del Minimo Sforzo [di Guido Pegna]

Il coronavirus ci ha costretto a cose prima inimmaginabili: lungo periodo di isolamento rigoroso e controllato, limitazione della libertà di movimento all’interno dello stesso quartiere nel periodo più duro, e poi fra comuni e città diverse, ripetute vaccinazioni, uso costante di mascherine sempre più protettive, sopportare per anni telegiornali, talk show, conferenze stampa, interventi di chiunque venisse fatto passare per esperto in uno degli aspetti della pandemia compresi giornalisti, chef, cantanti, e poi ripugnanti immagini televisive che mostravano un ago che penetra nel braccio non sempre bello di una persona, tutto accompagnato da crescente incertezza su cosa fosse veramente importante e utile, e se quello che si faceva appartenesse a un piano di strategia generale.

Intanto si assisteva a un enorme effluvio di denaro pubblico per l’acquisto di miliardi di siringhe, di sospetti stock di camici, per la fornitura di centinaia di milioni di dosi di vaccini, un affare smisurato per quelle quattro o cinque multinazionali del farmaco, le cosiddette big farma che con questo virus hanno conseguito complessivamente utili di entità paragonabili al PIL di una nazione.

Non voglio alludere a possibili complotti. Non credo a un complotto mondiale. Credo invece ad una specie di legge generale che mi sembra governi le cose del mondo. Una legge che chiamerò provvisoriamente “Principio del Minimo Sforzo”. Quello che voglio dire è che le cose del mondo tendono a seguire il percorso più facile, quello che richiede il minimo di riflessione, di non opporsi, di seguire l’opinione più diffusa, di lasciare che le cose vadano secondo l’andamento spontaneo, o usando un termine ora in auge che è diventato insopportabilmente stucchevole, di minima resilienza.

Non appena ci si rese conto che la malattia che si stava diffondendo era una cosa seria, il Principio del Minimo Sforzo entrò in funzione. Quello che fu fatto con poca inventiva e nessuna organizzazione complessiva fu di adagiarsi su un altro dei principi a cui si ricorre nei casi di  conoscenza imperfetta: il Principio di Precauzione nella sua forma forte.

Detto rozzamente, poiché non so cosa potrà succedere, prendo subito tutte le misure che saranno necessarie se si verificasse il caso peggiore. Poiché uno dei rami di quegli alberi potrebbe cadere, li taglio tutti. Nel caso del virus le drastiche limitazioni conseguenti alla applicazione supina del principio di precauzione vengono accettate perché si crede che sia meno costoso rinunciare a un po’ di libertà in cambio di una presunta (presunta!) maggiore sicurezza.

Andando un po’ più a fondo, si deve tuttavia constatare che il principio di precauzione è in contrasto con il metodo della scienza. Uno dei capisaldi della scienza è infatti il criterio di falsificabilità (Karl Popper), che è l’opposto dell’idea su cui si fonda il principio di precauzione. Il criterio di falsificabilità afferma che una teoria, per essere controllabile, perciò scientifica, deve essere “confutabile”: in termini logici, dalle sue premesse di base si devono poter dedurre condizioni e fatti che, qualora la teoria sia errata, ne possano dimostrare integralmente l’erroneità.

Quindi la scienza, per la sua struttura logica, non può fornire certezze definitive. Ogni teoria è di per sé provvisoria. Tutto il lavoro (quello serio, quello creativo) degli scienziati è teso infatti non alla verifica di fatti noti ma alla ricerca di un fatto che falsifichi la teoria corrente e condivisa entro cui essi si muovono. Quando questo, al fortunato scienziato, capita, e capita una sola volta nella vita di pochi, egli ha fatto una scoperta, ha raggiunto lo scopo per cui ha lavorato, e la sua vita ha avuto un senso universale.

Il principio di precauzione non si basa infatti sulla disponibilità di dati che provino la presenza di un rischio, ma sull’assenza di dati che assicurino la mancanza del rischio. Questo genera il problema di identificare con chiarezza la quantità di dati necessaria a dimostrare l’assenza di rischio, soprattutto alla luce dell’impossibilità della scienza di dare certezze.

In questo contesto, l’applicazione scorretta o esagerata del principio di precauzione finisce per bloccare il progresso della scienza, più che preservare la salute dei cittadini (dal Coronavirus, in questo caso particolare). Insomma, in questo quadro, risulterebbe che non è affatto certo che imporre a tutta una nazione la rigida quarantena, ripetute vaccinazioni, uso di mascherine ecc. diminuisca l’intensità della pandemia, e lo dimostrano le ricorrenti riprese di virulenza del contagio, che sembrano indipendenti dalle misure attuate.

Una conseguenza collaterale del Principio del Minimo Sforzo è che sembra inevitabile che se una cosa può essere fatta, allora viene fatta. In questo caso è più semplice ricorrere a esempi. Un mio amico, appassionato di telefonini, non può trattenersi dall’installare qualunque app  di cui gli giunga notizia, indipendentemente dall’uso che potrebbe farne.

Altro esempio: nel 1943 si capì che la bomba atomica poteva essere fatta, e fu fatta. Poi fu chiaro che si presentava la scelta fra lanciarla sul Giappone oppure darne solamente una dimostrazione innocua.

Molti scienziati si batterono per questa seconda soluzione. Ma la bomba poteva essere lanciata, e fu lanciata. Ma quante cose si fanno in questo modo! Se posso scegliere fra camminare sulla massicciata di una ferrovia o fare l’asse di equilibrio su un binario, allora faccio l’asse di equilibrio. Se posso scegliere fra andare a 70 o a 120 Km/ora, la cosa che si fa senza esserci imporsi di stare attenti, di sorvegliare il contachilometri, è di andare a 120 Km/ora. Nel caso del virus, se possiamo vaccinare tutta una nazione, ebbene, vacciniamola. E così via.

Sul Principio del Minimo Sforzo non abbiamo inventato nulla. É solamente una trasposizione ai fenomeni umani di una legge generale che coinvolge tutti i sistemi fisici, e che di volta in volta prende il nome di “principio della minima azione”, di “tendenza spontanea all’aumento dell’entropia”, di “tendenza spontanea di un sistema allo stato di minima energia”, di principio di D’Alembert, ecc.

Nel caso del Coronavirus e delle sue successive varianti, quante cose avrebbero potuto essere fatte specialmente prima che i vaccini diventassero disponibili se non ci si fosse adagiati sul Minimo Sforzo? Lo sappiamo tutti: non diffondere all’inizio l’idea che si trattava di una “semplice influenza”, che ci fece trovare del tutto impreparati alla pandemia; non diffondere l’informazione errata che il virus “non si trasmette per via aerea”, come dichiarato dall’OMS all’inizio della pandemia; non illudere tutta la nazione che le limitazioni imposte servivano a raggiungere le acque calme dell’”immunità di gregge”, cosa di cui poi non si è più sentito parlare.

E ancora una rete capillare di medici e strutture di supporto che curassero i pazienti a casa loro; un sistema di media che diffondesse poche, semplici, sicure e affidabili informazioni; avere cominciato già da anni a investire, con l’aiuto di sostanziosi fondi pubblici, sui farmaci antivirali, sulla scia dei farmaci che costituiscono una pratica standard per combattere l’HIV o per trattare le infezioni da epatite C, dato che l’allarme circa più che probabili pandemie future era stato diffuso da anni dai più eminenti virologi.

Infine, attuare le pratiche che abbiamo visto in Corea e in altri paesi dell’estremo oriente: disinfettare frequentemente e ampiamente tutte le superfici come banchi di scuola, corrimano delle scale, maniglie delle porte ecc.; ricambiare e sterilizzare l’aria negli ambienti chiusi e sui mezzi pubblici; non veicolare la falsa sicurezza che le mascherine siano una protezione efficace per chi le indossa; e probabilmente molte altre.

E quindi, anche se la colossale campagna di ripetute vaccinazioni di massa è stata provvidenziale, vaccinare molto meno, con più criterio e spendendo meno. Tutte queste cose avrebbero richiesto molto più impegno, razionalità, organizzazione e spese mirate rispetto alle poco efficaci, umilianti e alienanti misure che abbiamo dovuto subire.

 

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