“Nazione”, parola del passato. Il linguaggio della destra [di Marco Belpoliti]

La Repubblica, giovedì 27 ottobre 2022. Le parole hanno una coscienza, scrive Elias Canetti. Ha perfettamente ragione, perché le parole, non solo rivelano i pensieri di chi le pronuncia, ma recano con sé tracce evidenti del passato, come accade per ogni individuo.

Dice “Nazione” e non “Paese”, il nuovo Presidente del Consiglio, usando un termine che è stato messo in circolazione dalla Rivoluzione francese e diffuso per l’Europa dalle armate napoleoniche. Il suo scopo originario era di superare gli ordini dell’Antico regime dando vita a un nuovo soggetto politico in contrasto con la sovranità del Re, opponendogli la sovranità popolare.

Il concetto di Nazione usato oggi vuole escludere la realtà d’una società divisa in classi sociali, semplificando la complessità introdotta dalle rivoluzioni industriali. Durante l’età romantica il termine è stato inteso in questo modo da Mazzini e Manzoni. La cultura politica liberale ne fece uno dei cementi della sua azione politica intendendo la Nazione, non solo come una entità geografica, che nel caso dell’Italia è segnata dalla sua forma, dall’essere una lunga penisola tra due

mari principali, ma prima di tutto con fatto linguistico. L’unificazione linguistica degli italiani è un processo che, come ha evidenziato Tullio De Mauro, s’è compiuto nelle trincee della Prima guerra italiana e con la diffusione della televisione dopo il 1954, quindi ben oltre l’Unità d’Italia. Il fatto è che il nazionalismo, inteso come movimento teso alla affermazione della propria superiorità nazionale rispetto alle altre entità statali, è stato una delle ideologie che hanno condotto allo scontro imperialistico della Prima guerra mondiale e agevolato l’avvento del Fascismo.

Nazione, per quanto nata a partire da ideali di libertà e democrazia, è una parola connotata da un significato conservatore e serve ad annullare il problema posto dai conflitti sociali, riconducendoli alla sola matrice della sovranità statale. Gli stati nazionali che si sono formati in Europa alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, dopo la dissoluzione degli imperi, sono stati opera prima di tutto di intellettuali, scrittori, etnografi e linguisti, attori di una costruzione culturale artificiale, come ha spiegato con dovizia di argomentazioni Benedict Anderson in

Comunità immaginate (Laterza). Hanno creato tradizioni che non esistevano, inventato memorie, producendo così mitologemi che hanno condizionato l’immaginario collettivo. L’ideale di un èthnos unificato sotto l’ideale nazionalista s’è sovrapposto alla stessa sfera della cittadinanza. Sono almeno ottanta anni che “si è conclusa la funzione integratrice e produttrice di lealtà collettive su base etnica” veicolata dalla parola Nazione. Usarla ancora significa riportare le lancette della storia all’indietro e resuscitare un passato che ha mostrato i suoi limiti e provocato danni gravi.

Nella Costituzione italiana, come ha scritto il costituzionalista Vezio Crisafulli, “nazione” è usata come sinonimo di Stato, dello Stato-comunità e in solo caso quale sinonimo di “popolo” (arti. 67). Il termine Paese, più mite e dolce, è attestato nel latino medievale paysius nel 1242 per indicare una “grande estensione di territorio abitato e coltivato”. Il suo significato rimanda ad un altro temine oggi così importante per noi: paesaggio, il quale viene

sempre dal latino pagense, dall’aggettivo pagus, che è il villaggio, in origine, scrive il DELI, “cippo di confine fissato a terra”. Il suo significato attuale indica la propria origine territoriale, la città o il paese appunto, ma anche l’Italia intesa sotto l’aspetto geografico (terra in cui si vive), come carattere fisico (forma del suolo, piante, ecc.) e anche antropico (modi di abitazione, di vivere, ecc.). Da concetto giuridico a concetto fisico e visivo, è una parola che corrisponde maggiormente alla nostra realtà attuale di abitanti della Terra, di ospiti del Pianeta azzurro, di cui non siamo di certo i padroni, nonostante tutta la nostra

orgogliosa idea di possesso. Forse è venuto il momento di passare dal XIX secolo al XXI e smettere di parlare di Nazione, se non in un significato storico, ovvero riferito al passato. Cambiare idee e parole è un segno d’intelligenza. La coerenza con sé stessi, cara Presidente del Consiglio, non sempre è una virtù.

 

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