L’uguaglianza non è più una virtù [di Gianni Loy]

Il concetto di “merito”, a ben vedere, può esistere solo in presenza del suo contrario: il demerito.  Tutte le volte in cui esaltiamo una persona in quanto meritevole affermiamo, implicitamente, che esistono altre persone che meritevoli non sono. Cosicché i primi, i meritevoli, saranno scelti, avranno come premio un posto di riguardo nella società. I secondi saranno puniti, il loro castigo, simmetricamente,  consiste  nell’essere esclusi da quei posti di riguardo nella società.

Luigino Bruni, qualche anno orsono, (Rai 3, Uomini e profeti, 10 marzo 2019) ci ha ricordato, in un contesto di riflessione teologica, che “una cultura meritocratica è sempre una cultura ingrata, perché legge tutto come merito individuale, si dimentica di quanta gratuità, quanto caso, quanta provvidenza c’è dietro la ricchezza individuale”.

Una cultura che, oltretutto, mai definisce esattamente  in cosa consista il merito. Non coincide, certamente – ad esempio – con i “meriti” di cui il Signore terrà conto per l’accesso al Regno dei Cieli, al quale saranno chiamati i poveri di spirito, i mansueti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i pacifici …. Virtù, tutte, non contemplate nei curriculum di chi aspira ad emergere  in una società meritocratica.

Oltretutto, anche a non voler scomodare la parabola evangelica, è del tutto evidente che ciascuna persona riceve dalla nascita, un diverso patrimonio di talenti. Ed il talento che ciascuno riceve, a partire dai filamenti cromosomici sino alle opportunità della propria formazione sociale – Don Milani insegna –, non è affatto un merito. Sono forse meriti la prestanza fisica o l’intelligenza ricevute in dote sin dalla nascita? È forse un merito la “fortuna” di nascere in un ambiente e con risorse sociali ed economiche in grado di esaltare le capacità naturali della persona?

Una visione, quella dell’ideologia meritocratica, persino falsa e crudele, visto che alla competizione – altro che: competition is competition”, per citare un famoso aforisma  di Romano Prodi – a nessuna competizione possono partecipare tutti; una visione sicuramente anticristiana.

Miope visione da “ultimo miglio”, che si limita ad osservare lo sprint finale, senza riflettere sui meccanismi di selezione sociale che hanno portato alla composizione della griglia di partenza di quell’ultimo  tratto.

“La competizione, – ha avuto modo di sottolineare Paolo Crepet – non è per tutti, e soprattutto non seleziona i migliori”.

Non a caso, molte persone che eccellono, in tutti i campi, vengo definite “talenti naturali”.  Dove sta, quindi  il merito? Al massimo nel non aver scialacquato i talenti ricevuti. Ma per chi è venuto al mondo in condizioni sfavorevoli, se non drammatiche, dove sta il demerito?

Secondo la condivisibile visione di Luigino Bruni: tutte le teologie e le ideologie meritocratiche si presentano come umanesimo, ma diventano, immediatamente, un meccanismo di creazione di colpe e di pene, cioè “prima di essere una teoria del merito sono teoria del demerito e fanno rivivere l’idea arcaica che il povero e colpevole”.

Così, ahinoi, le diseguaglianze prodotte dal capitalismo – che persino lo stesso capitalismo del novecento,  almeno in alcune delle sue versioni anteriori alla caduta del muro di Berlino, – si era ripromessa  almeno di attenuare – non sono più considerate un male ma una virtù.

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