Pasolini sotto gli occhi del mondo: fotografie e icone [di Marco Belpoliti]

https://www.doppiozero.com4 Novembre 2022. Pasolini è diventato un’icona. Non solo dal punto di vista letterario e culturale – cosa direbbe oggi Pasolini? ci si chiede spesso –, ma anche dal punto di vista visivo. Come dimostrano le innumerevoli pubblicazioni uscite negli ultimi mesi in occasione del centenario della sua nascita, non c’è nessun autore italiano del Novecento che sia stato così fotografato come lui.

Non solo da agenzie fotografiche, reporter o paparazzi – Pasolini era perseguitato dai giornali anche scandalistici di destra –, ma anche da alcuni grandi autori del Novecento: Herbert List lo ritrae a Roma nel 1953, Cartier-Bresson lo fissa nel 1959 al Mandrigone, quartiere della capitale, e prima di lui il fotografo ritrovato, Paolo Di Paolo, lo ritrae nel viaggio lungo le coste italiane nella prima epoca delle vacanze di massa nel 1954, per non parlare di irregolari geniali come Mario Dondero, che lo fissa in un meraviglioso ritratto con la madre nel 1961, o il grande Richard Avedon che lo cattura nel 1966 in alcuni incredibili scatti in occasione di un suo viaggio in America, a New York.

Se dovessimo mettere in fila tutti gli scatti di fotografi noti e meno noti, alcuni dei quali davvero straordinari, avremmo qualcosa di incredibile dal punto di vista visivo: l’equivalente in termini numerici, e non solo, delle poesie che ha scritto giorno per giorno lungo l’intero corso della sua vita. “Poesie e fotografie” potrebbe intitolarsi questo ipotetico libro di centinaia di pagine coi suoi versi e gli scatti che lo ritraggono.

La mostra che ha reso in parte testimonianza di questa passione della fotografia per PPP s’intitola Sotto gli occhi del mondo ed è stata inaugurata a Villa Manin di Passariano, promossa dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa nel settembre di quest’anno (resterà aperta fino all’8 gennaio del 2023).

L’hanno curata in modo eccellente Silvia Martin Gutiérrez e Marco Antonio Bazzocchi, e riporta molti di questi scatti che si possono vedere nel catalogo pubblicato da Contrasto. Il titolo della mostra è perfetto. Cosa significa sotto gli occhi del mondo? Si tratta di un’espressione di Pasolini che ha sempre pensato di essere guardato, anzi l’ha desiderato secondo quella particolare di narcisismo che è stato lo stigma della sua personalità letteraria e umana – il primo a capirlo fu già nel 1943 Gianfranco Contini scrivendo su un giornale svizzero del suo primo libro di poesie in friulano.

Narcisismo è una parola chiave per comprendere la sua intera poesia e anche il voyerismo rovesciato che PPP ha stabilito con il mondo dell’immagine. Guardare, ma soprattutto essere guardati, sembra il tema delle immagini che lo ritraggono. Come il personaggio della mitologia, Narciso, Pier Paolo si specchia nel Mondo e non si riconosce, o meglio: non si sente riconosciuto per quello che è, o che vorrebbe essere.

Forse non riconosce la propria immagine, non quella prodotta dagli scatti dei fotografi, ma quella che il mondo gli restituisce in varie forme e modi. Inoltre, pochi scrittori del Novecento italiano e internazionale sono stati così visivi come Pasolini. Lo dimostra il suo passaggio al cinema e anche la sua attività pittorica praticata seppure in modo discontinuo oggi esposta a Roma, Pasolini pittore (a cura di Silvana Cirillo, Claudio Crescentini e Federica Pirani, Silvana editoriale, aperta sino al 16 aprile 2023). Il mondo mi guarda e non mi vuole, dice a un certo punto il poeta, intuendo anche cosa gli accadrà nel 1975.

Marco Antonio Bazzocchi nel testo che ha scritto per la mostra, Mi metto in posa, coglie alcuni degli aspetti importanti del rapporto di PPP con la fotografia e in particolare con la propria immagine, e sul modo con cui l’hanno guardato i fotografi. Consapevole di dover avere un’immagine pubblica, alla vigilia delle riprese di Accattone, nel 1960 chiama Paolo Di Paolo per farsi immortalare in un luogo a lui ben noto, il Monte dei cocci a Roma.

Ma anche nelle foto del giovane Pasolini fotografato con un maglioncino bianco nella sua casa di via Fonteiana a Roma nel 1957, due anni dopo l’uscita di Ragazzi di vita (Archivio Luce Cinecittà) con il libro sotto braccio, è ben conscio d’offrire un’immagine di sé che sarà guardata dagli altri con curiosità e attenzione.

Bazzocchi cita un testo di Roland Barthes (in La camera chiara) secondo cui mettersi in posa significa trasformarsi in un’immagine: una sorta di autoscatto o autobiografia visiva di sé stessi. L’obiettivo plasma il corpo, e PPP cerca d’aggirare il problema d’essere trasformato in un “esterno”, scrive Bazzocchi sulla scorta del saggista francese. Il critico punta il dito su un fatto biografico e psicologico: la sensazione che Pasolini ha del proprio invecchiare.

Le foto ingialliscono, ha scritto il poeta, e ingiallire significa morire, oltre che superare di colpo l’età della giovinezza che per il Narciso-Pasolini è fondamentale. Che Pasolini abbia fatto di tutto per non ingiallire, per essere sempre “giovane”, anche letterariamente e culturalmente, è un fatto incontrovertibile, un elemento che riguarda anche la sua passione erotica per i ragazzi, per il proprio sé giovane, il giovane che era stato nelle estati del 1940 sulle rive del Tagliamento e che rivede nei ragazzi con cui desidera fare l’amore: il primo ragazzo di vita è lui stesso.

Bellissime sono le fotografie scattate da Gabriella Drudi, purtroppo non presenti a Villa Manin, nei primissimi anni del suo arrivo a Roma dopo la fuga da Casarsa per lo scandalo sessuale che gli ha fatto perdere il posto di insegnante e gli è costato l’espulsione dal Partito Comunista. Drudi lo fissa sui barconi ancorati lungo le rive del Tevere in costume da bagno: un giovane uomo, magro e muscoloso, bello e insieme selvaggio, in posa come se fosse un personaggio dei suoi futuri libri.

Ci sono due Pasolini. Uno è il letterato in giacca e cravatta che i fotografi vanno a trovare nella sua casa di via Carini 45 prima, e poi in via Eufrate 9, poi, tra l’inizio degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, il periodo in cui si è trasformato in regista ed è noto a livello internazionale. Un Pasolini borghese, o piccolo borghese, con la madre, seduto davanti alla propria libreria, mentre innaffia i fiori del giardino o siede in poltrona, in compagnia della madre-moglie.

È l’intellettuale, il poeta, lo scrittore, l’uomo di successo, del raggiunto successo sociale ed economico. Poi c’è il Pasolini che sempre in giacca – è pur sempre il professore – frequenta le favelas della Capitale in mezzo a gruppi di ragazzini, come nei ritratti di Cartier-Bresson o in quelli di Paolo Di Paolo, fotografie che mostrano la sua dualità, quella che ritroviamo per interposta persona nei due romanzi della periferia romana, Ragazzi di vita e Una vita violenta.

In queste fotografie ci appare meno in posa che nello studio di casa, un viso serio, carico di energia, ombroso a tratti, ma sempre curioso. Nelle bellissime fotografie di Herbert List o di Max Scheler del 1953 (fotografano insieme e spesso non si sa chi abbia scattato dei due) è un giovane di trentun anni con un ciuffo in testa, lo sguardo romantico perso nelle strade del quartiere popolare romano nei pressi di Trastevere. Anni dopo lo ritroviamo nelle fotografie di un altro grande fotografo, Ugo Mulas a Milano nel 1968, mentre gira Teorema.

Il viso scavato, lo sguardo più disincantato, ha iniziato a portare gli occhiali scuri come una sorta di difesa dal mondo esterno: niente esce da lui e nessuno lo può guardare negli occhi. Mulas l’ha ritratto sul set per le strade della città, e ne ha fissato il profilo: una silhouette scura sullo sfondo chiaro.

In questa immagine il fotografo cattura un aspetto in ombra dello scrittore, la sua natura inquieta e notturna, quella di cui dirà in una celebre risposta Italo Calvino nel 1975 sulle pagine del “Corriere della Sera”, dove nomina la propria doppia identità di dottor Jekyll e Mr Hyde, alludendo alla doppia vita diurna di intellettuale, poeta e regista, e a quella notturna in cui si immerge nella periferia romana con la sua automobile. Là ora incontra il mondo sottoproletario o almeno quello che resta di quell’universo da lui scoperto all’arrivo a Roma all’inizio degli anni Cinquanta, e di cui, cupo e deluso, all’inizio dei Settanta certifica la morte.

Sono le fotografie di Gideon Bachman del 1974, un anno prima della morte, alla Torre di Chia, l’edificio con i resti medievali che ha acquistato per costruire un suo rifugio in un angolo selvaggio del Lazio, un Pasolini che ha il volto di uno dei personaggi del suo Decameron, il film che ha abiurato insieme agli altri due della Trilogia della vita. Qui non è più l’intellettuale, come scrive Bazzocchi, che ha bucato definitivamente ogni mezzo di comunicazione, un “personaggio”.

O meglio, lo è ma non nel modo con cui è stato fissato sui rotocalchi e i giornali negli scatti e nelle istantanee. Appare come un uomo vissuto, che sta invecchiando e che continua a pensarsi, e a essere, un uomo giovane: scattante, energico, per quanto segnato in viso dal passare del tempo.

Ci sembra un Pasolini quasi malandrino, simile ai personaggi che ha raccontato nei libri e nei film, un uomo che è tante persone e al tempo stesso un’unica personalità. Sono gli ultimi anni della sua vita, e non lo sa, o forse sì, forse intuisce che qualcosa è cambiato e che sta per accadere qualcosa: un destino da lui più volte immaginato nella figura del Cristo martoriato, in croce, l’altra faccia di Narciso nelle poesie friulane su cui ritorna nell’ultimo periodo.

Del 1975 è il bellissimo ritratto che gli fa Dino Pederiali. Prima lo ritrae per le strade deserte di Sabaudia, la città edificata dal Fascismo, che Pasolini trova più bella delle nuove città del boom economico, poi nella Torre di Chia. Guarda in macchina in modo intenso, non interrogativo, non provocatorio, e tuttavia mai arreso.

La mano davanti alla bocca su cui si appoggia il viso; la bocca che non si intravede: una foto del silenzio? Una foto che è stata riprodotta molte volte, quasi il suo ritratto canonico a poca distanza dalla morte violenta che dovrà soffrire. Pederiali è il fotografo che negli ultimi giorni di vita lo ritrae nudo dietro i vetri della sua casa di Chia, un lavoro fotografico voluto da Pasolini stesso, che ne è il regista: desidera essere colto come di sorpresa, mentre è nella camera da letto, mentre legge, mentre è nella sua intimità, una intimità erotica, che si identifica con il suo nudo maschile.

Queste fotografie, la cui storia ho provato a raccontare in un testo incluso in Pasolini e il suo doppio (Guanda), dovevano essere incluse nel romanzo che stava scrivendo e che apparirà solo a distanza di tempo, dopo la sua morte, col titolo di Petrolio: la messa in forma narrativa dei temi e degli argomenti che andava agitando nei suoi Scritti corsari e nella postuma raccolta di articoli Lettere luterane.

Un grande e incompiuto romanzo sulla doppia identità sessuale del suo protagonista, diviso tra la natura maschile e quella femminile, tra l’elemento materno e quello paterno come ha spiegato in un suo testo Alessandro Banda.

Il ritratto più affascinante di questa serie compresa in Sotto gli occhi del mondo è quello che gli ha fatto Richard Avedon nel 1966. Incorniciato da un riquadro nero, come di consueto nella serie dei ritratti del fotografo americano, Pasolini è a braccia conserte, con la cravatta e senza giacca.

Il suo sguardo è il contrario di quello che gli ha scattato Pederiali: sembra sperso nel vuoto, gli occhi scuri sembrano quelli di un cieco: non vede o piuttosto non guarda, forse pensa o immagina. Anche l’espressione del viso è priva di una definizione: quasi neutra. Avedon è un fotografo spietato.

Le sue fotografie vogliono mettere a nudo l’uomo o la donna che fissa col suo obiettivo; vuole mostrare l’estrema fragilità dell’essere umano, dimostrando che la macchina fotografica può ottenere questo risultato. Chi è il Pasolini che ha colto coi suoi scatti?

Un uomo distante, impenetrabile, chiuso nel suo segreto: umano troppo umano. Non cinico, non sentimentale. Una neutralità, ma armata. La fotografia seguente, o forse precedente, scattata da Avedon, è invece tutto il contrario. Ci mostra Pier Paolo con il suo impermeabile addosso aperto sul davanti; ha tolto le mani dalle tasche o forse sta per metterle in tasca.

Sul viso quasi un sorriso, colto di sorpresa, ci mostra la sua natura di uomo indifeso: un homeless, un senza tetto nella vita. L’ha smascherato? Ha scoperto il segreto di Pasolini? C’è sempre in PPP una doppia natura: la forza e la tenerezza, l’azzardo e il timore, l’ostentazione e la ritrosia. Forse proprio questa natura duplice costituisce l’elemento più iconico di Pasolini, il suo stigma, la forma della sua difficile identità. E forse anche della sua perdurante notorietà. Inafferrabile. Al tempo stesso così vicino e così lontano in immagine. Un’icona.

Venti incontri, venti parole, venti biblioteche, venti oratori, venti podcast: cento anni di Pasolini. Un ciclo di incontri e di testi affidati a scrittori e esperti per attraversare l’immaginario pasoliniano, un progetto Doppiozero in collaborazione con Roma Culture. 

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