Un Non Natale [di Franco Mannoni]

Non ce la scamperemo, neanche quest’anno! Non è blasfemia, la mia, perché l’esclamazione non è diretta alla festa della Natività e al rito legato alla sua rievocazione. Che è sacra per il suo contenuto e per la fede che le dà corpo, valore e intensità. Il sacro lo si condivide o lo si rispetta. Io lo rispetto.

La frase d’esordio si riferisce al complesso apparato che ha preso in consegna il Natale come consuetudine e necessità indotta di consumi, che ha fatto della festa qualcosa assomigliante più al contemporaneo black friday che al Natale dell’attesa e della preghiera. Così che mi chiedo se esista ancora, dopo tanti incroci e contaminazioni.

Mi domando, ancora, quanto di cristiano sopravviva nelle forme di evocazione e di celebrazione di questa ricorrenza così come oggi è vissuta. Molto, nel Natale di oggi è commercio. Lo scambio dei regali e le mangiate pantagrueliche appaiono come la sopravvivenza di una recente acquisita consuetudine di consumi crescenti, propria della società occidentale opulenta e dominata dall’idea della crescita infinita. Un mondo che in sostanza non c’è più, distrutto dalle diseguaglianze e dalle guerre.

Tutta questa premessa per distinguere un Natale coltivato dai fanciulli, e prossimo al suo significato autentico originario, e la sua rappresentazione attuale, priva di anima e di senso.

I giorni di Natale, ormai di qualche anno fa. Un ragazzino africano cerca di raggiungere l’Europa, nascondendosi nell’alloggiamento del carrello di un aereo di linea prossimo alla partenza. Giungerà cadavere all’aeroporto scintillante di una capitale europea, non importa quale. 

Meditare, oltre che inorridire, è il dovere dei cittadini benestanti (si, in ogni caso e ad onta degli stereotipi coltivati). Per tentare di immaginare il sogno, sognato di notte e accarezzato anche da sveglio, che ha spinto il ragazzino a tentare la sorte del volo da clandestino. 

«Sono esile, mi basterà poco spazio. Arriverò là dove i Babbo Natale distribuiscono doni a tutti, dove giocano i campioni del calcio, dei quali a noi arrivano solo le magliette più a buon prezzo.»

Si mangia poco e male nelle immense periferie delle città dell’Africa, si vive nella miseria dei grandi slums. Molti di quelli come lui non hanno un nome e non conoscono la loro età.» deve aver pensato, «Sicuramente in Francia, in Germania, in Italia è tutta un’altra cosa. Qui i Principi e gli Emiri comandano e ci affamano, in Europa comprano alberghi e squadre di calcio. Devo provarci anche io.» 

Non ha considerato, il ragazzino, che gli aerei volano a diecimila metri e a cinquanta gradi sotto zero. Che a quelle condizioni i bambini come lui diventano abitanti del cielo. Lì è rimasto, il ragazzino senza nome, come un bagaglio smarrito che nessuno reclama. Senza nome, come tanti bambini delle periferie. Chissà se in paradiso chiedono la carta d’identità? 

Devo andare nella profondità della mia memoria affollata per recuperare l’immagine e il ricordo di un Natale di fanciullo. Sarà stato il 1943, ancora in piena guerra mondiale, e noi eravamo sfollati al paese di mio padre, Cheremule.

L’arrivo del Natale non si coglieva certo da segni esteriori. La casa disadorna, di cui disponevamo, tale restava anche in quella ricorrenza. Ma sentivo parlare della nascita del bambino e del suo apparire in una mangiatoia durante la messa di mezzanotte, sa missa ‘e puddu, come la nominava la parlata del luogo. Una messa in notturna, a mezzanotte?

Una cosa per grandi, per veri uomini e vere donne. Per un fanciullino era un meravigliarsi continuo, un desiderare di esserci anche dove i grandi ritenevano che non fosse il caso. E poi, a tempo opportuno, sarebbe venuto il sonno a risolvere i problemi.

Non mi resta il ricordo di un regalo, per un limite di memoria o per limite imposto dalla guerra. Sa missa ‘e puddu, con tutte quelle persone in costume che recitano le preghiere e cantano gli inni sacri, il mistero del rito notturno, questo sì, lo ricordo.

Un altro Natale, più usuale e consapevole, è quello che attribuisco al 1944. Eravamo rientrati a Cagliari, una città colpita e semidistrutta dai bombardamenti, dove avevamo trovato alloggio provvisorio presso una famiglia di compaesani di Babbo. Per le feste i padroni di casa erano rientrati al paese e noi, babbo, mamma e mio fratello, festeggiavamo da soli, con una grande casa a disposizione.

La nostra abitazione cagliaritana era stata danneggiata dai bombardamenti, nell’incombenza dei quali l’avevamo precipitosamente abbandonata. Per quel Natale ’44 disponevamo di nuovo di una casa vera, sia pure provvisoriamente.

Mettemmo insieme un presepio, nella grande sala da pranzo, con le statuine di gesso, le grotte di cartone, il bue e l’asino. Noi si credeva nel Gesù Bambino, che, rinnovando sulla Terra il miracolo della sua nascita, avrebbe portato i regali ai bambini.

Avevo sei anni, tre più di mio fratello Gianni, ed ero in seconda elementare. Il presepe, l’attesa della nascita, l’idea della messa di mezzanotte, la speranza dei giocattoli: questo l’insieme di eventi e di emozioni che si creava. Vinti dal sonno, fummo sistemati, noi bambini, nei rispettivi giacigli.

Ma nel dormiveglia del primo mattino seguente, avvertii, nella nostra camera qualche movimento. Trattenni il respiro e intravvidi, fingendo di dormire, il babbo che collocava presso i nostri lettini, per me un monopattino di legno di fattura artigianale, per mio fratello una “Littorina” che era il treno a nafta molto usato nelle ferrovie sarde di allora.

Più tardi avremmo giocato e rigiocato con quei semplici oggetti, venendone a conoscenza nei particolari. Notammo che il monopattino di legno dipinto di rosso correva su ruote ricavate da cuscinetti a sfera, recuperati da qualche smontaggio di apparati bellici.

Il modello di vettura ferroviaria, la mitica “Littorina”, era di lamiera verniciata di verde militare. Esaminandola dalla parte inferiore si poteva notare, stampata a colori sul lamierino, la marca della famosa zuppa CAMPBELL. Circostanza che ne rivelava l’avvenuto riciclo.

Resta, di quel Natale, il ricordo dell’attesa, della sorpresa e, per me ,del semplice atto d’amore dei genitori che si manifestava nel dono, frutto, esso stesso, dell’impegno a realizzarlo in tempi ancora perigliosi e di estrema scarsità di mezzi.

 Il pensiero corre ai giorni perigliosi del presente. La festa del Natale è l’attesa dell’Evento, nella povertà e nel tepore della stalla, nella quale si replica il miracolo della nascita dell’esule e del costituirsi e proteggersi della famiglia. È anche la festa della luce, del ritorno all’espandersi di essa nel sempiterno confrontarsi con le tenebre, verso la luminosità della primavera.

 Metaforicamente, ricorre il trionfo della luce del bene sulle tenebre del male, della violenza, della guerra.

Nei giorni oscuri che viviamo c’è chi costringe un popolo nel buio del lungo gelido inverno per fiaccarne la resistenza che ha opposto a un disegno folle di dominio. Bambini, donne, vecchi, adulti: che Natale conosceranno se no quello della sofferenza.

 Il Non Natale di oggi trova la sua salvezza nel ricordo, nel recuperare dalla memoria l’atmosfera di rinascita e di speranza che sembrava animare le persone nell’emergere dall’angoscia della guerra.Allora il giocattolo dei bambini non proveniva da Amazon, ma dalla duttilità di artigiani che praticavano, ante litteram, l’arte del riciclo. E dalla dedizione di genitori che apriva la via della fiducia nel futuro.

Lascia un commento