Suore al patibolo [di Franco Masala]

Chi sostiene che l’opera lirica del Novecento sia morta con Turandot di Puccini (1926) dovrebbe ascoltare i Dialogues des Carmélites di Francis Poulenc (1957). Un dramma dove il testo bellissimo di Georges Bernanos si sposa a una musica tonale che ha diversi padri putativi – da Monteverdi e Debussy a Musorgskij a Stravinskij – al servizio di una tragedia realmente accaduta a Parigi nell’agosto del 1794 e quindi allo spirare del Terrore.

Un gruppo di carmelitane furono ghigliottinate nel momento difficile che variava tra Illuminismo e anticlericalismo per l’affermazione dei diritti umani. Le suore, di clausura e quindi “inutili”, si avviarono al patibolo offrendo la propria vita per il bene della Francia.

La partitura di Poulenc, nata da una sceneggiatura cinematografica, poi divenuta una pièce teatrale, ebbe gran successo alla prima scaligera del 1957 – in lingua italiana e con una compagnia di canto che un’opera del Novecento ha avuto raramente al debutto: Zeani Pederzini Gencer Frazzoni Cossotto Ratti Filacuridi Misciano – ma fu anche giudicata passatista e antitetica alle novità musicali che la scuola di Darmstadt stava sperimentando allora.

Oggi il capolavoro, poiché di questo si tratta, di Poulenc è entrato in repertorio e può annoverare molte produzioni di prestigio che esaltano ad ogni rappresentazione i punti culminanti dell’opera: la morte “brutta” della vecchia Priora, lo splendido duetto fratello-sorella del secondo atto, l’aria di congedo di Madame Lidoine, nuova Priora, e, soprattutto, l’agghiacciante finale col Salve Regina intonato dalle quindici carmelitane con le voci che diminuiscono a mano a mano che la ghigliottina le sacrifica con un rumore cadenzato e terribile fino alla conclusione in un silenzio totale.

Basterebbero queste poche indicazioni per suggerire l’originalità di un lavoro dove si canta, magari senza ascoltarsi l’un l’altro, rivelando il problema del rapporto vita-morte, la paura di questa, l’essere fedeli alle proprie idee.

Il teatro dell’Opera di Roma ha inaugurato la sua stagione 2022-23 affidando i Dialogues al maestro Michele Mariotti, al suo debutto come direttore musicale della Fondazione romana. Il risultato è uno spettacolo magnifico dove Mariotti ha profuso una capacità di dominare la partitura senza prevaricazioni sulle voci nonostante la presenza di percussioni e fiati in abbondanza, con una lettura analitica delle sfumature che hanno trovato esito straordinario anche nei numerosi interludi. Orchestra in forma eccezionale e coro impegnatissimo, istruito da Ciro Visco, anche lui al suo debutto in questa veste.

Che in quest’opera occorrano grandi voci è una tautologia – soprattutto se si scorre il lungo elenco di voci illustri che hanno cantato i Dialogues: Crèspin Sutherland Price Olivero Verrett tanto per citarne solo alcune – e bisogna dire che il teatro romano ha fatto centro nelle numerose parti femminili comprendenti la Blanche appassionata e timorosa di Corinne Winters; la straordinaria prova di cantante e attrice di Anna Caterina Antonacci, oltre tutto con una dizione francese esemplare (la vecchia Priora); Ekaterina Gubanova, splendida Mére Marie autoritaria e dubbiosa; Ewa Vesin, capace di dare peso alla semplicità della nuova Priora; la squillante Soeur Constance del soprano Emöke Baráth, sicurissima anche nelle note più impervie; e ancora in parti minori Irene Savignano e Sara Rocchi, uscite dalle file di “Fabbrica” Young Artist Program dell’Opera di Roma.

Gli interpreti maschili hanno minor peso, ciò che non ha impedito alcune prove notevolissime per il baritono francese Jean-François Lapointe e il tenore ukraino Bogdan Volkov (i de la Force, padre e fratello di Blanche) e poi Krystian Adam (Aumônier du Carmel), Alessio Verna (Geôlier e II Commissaire), William Morgan (I Commissaire), Roberto Accurso (Officier) e Andrii Ganchuk (Thierry e Javelinot).

La regia di Emma Dante, che, more solito, ha impiegato anche i mimi della sua compagnia, è sostanzialmente rispettosa della vicenda e utilizza in diversi modi le griglie sia di una prigione metaforica (il convento) sia del vero carcere, spesso “abitate” da cornici che contengono dipinti femminili (le Carmelitane “prima” della monacazione), diventano confessionali e, infine, sono il patibolo su cui scende un telo bianco in concomitanza con lo scorrere della lama (scene di Carmine Maringola e luci di Cristian Zucaro).

La cura della recitazione è analitica e trova il suo culmine nelle capacità attoriali della Antonacci. Forse l’unico appunto ai costumi di Veronica Sannino sono le corazze e gli elmi-aureole che trasformano inopinatamente in Walkirie le suore, certo “combattenti” di Cristo ma religiose innanzi tutto. Movimenti coreografici di Sandro Campagna.

Successo trionfale con numerosissime chiamate finali da un pubblico festante e partecipe. Ciliegina sulla torta: un programma di sala che è un vero e proprio volume, ricchissimo di splendide illustrazioni e di saggi che spaziano dalla genesi dell’opera alle produzioni pregresse fino all’apporto di cinema, pittura e letteratura.

*Anna Caterina Antonacci, foto di Fabrizio Sansoni ©

 

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