Le Chiudende dell’eolico [di Alessandro Mongili]

Assistiamo al dispiegamento dell’ultimo assalto speculativo alla Sardegna, che riguarda l’eolico in particolare. Soprattutto, l’imposizione della quota di produzione di 6,2 GW da fonti rinnovabili entro il 2030. Se la quota fosse calcolata in base ai nostri consumi, sarebbe di 2,2 GW. Ma già produciamo 2,8 GW da rinnovabili, per cui il raddoppio della nostra quota non servirebbe a noi.

Alle regioni privilegiate del Nord, che producono poco da rinnovabili – soprattutto in relazione ai loro ingenti consumi – non è richiesto di adeguarsi né di produrre in eccesso, come messo ben in evidenza su questo sito  da Giuseppe Biggio recentemente su Sardegna Soprattutto (http://www.sardegnasoprattutto.com/archives/25297).  Per farla breve, esse scaricano su di noi e su altre parti emarginate dello Stato il “fardello” (burden sharing), così come viene definito sulla documentazione, à la Kipling.

Scaricare su di noi significa scaricare sul nostro paesaggio. Non è certo una grande novità. L’antropologa ambientale Tracey Heatherington, nel suo Wild Sardinia, pubblicato nel 2010 e mai tradotto, o forse capito, in Sardegna, dedicato a un’analisi della vicenda del Parco del Gennargentu, ha caratterizzato la storia ambientale della Sardegna come una “erosione della sovranità indigena sui paesaggi e la cancellazione epistemica della conoscenza locale”, attraverso la sostituzione del ruolo delle popolazioni native nella determinazione del paesaggio, le cui conoscenze e interessi sono sistematicamente minimizzati e sviliti, con la razionalità propria di grandi organizzazioni non sarde.

Le grandi organizzazioni o imprese, e gli speculatori, guardano alla Sardegna con lo sguardo di chi vede una “terra senza popolo”, in cui natura e cultura sono separate in modo netto e la sola cultura ammessa è quella delle loro tabelle excel, che assumono un’aura di oggettività assolutamente usurpata. Esse si applicano al dato “naturale” spogliato dell’umano, ma si presentano come “oggettive”. Il concetto di paesaggio, al contrario, riconnette natura e cultura, cioè ammette che umani e non umani agiscano assieme e vivano assieme.

Utilizzare questa dicotomia natura/cultura ha riflessi politici nefasti, come vediamo bene nel caso dell’eolico. Insieme ad altri concetti apparentabili, “paesaggio” ci fa invece capire l’insieme che abbiamo davanti e contemporaneamente viviamo e ci forma come una cosa sola, in cui gli elementi umani e non umani sono inestricabilmente intrecciati. Ed è un concetto che richiede da parte nostra l’impegno politico e civico. Esso è inoltre radicato nel dibattito culturale internazionale da almeno trent’anni, senza che non abbia ancora raggiunto però, se non marginalmente le quiete acque delle italiche accademie, e figuriamoci delle loro sezioni isolane.

Il paesaggio sardo non è idilliaco, non è il wilderness idealizzato dai coloni americani che non vedevano, o ammazzavano nel caso in cui li vedessero, i nativi americani. Esso è segnato dall’attività umana da millenni, è un tutt’uno con la nostra cultura, a sua volta incomprensibile se astratta dalla nostra natura. Così come, indubitabilmente, l’attività umana è intrecciata in modo inestricabile, in Sardegna, a elementi naturali, in modi differenziati.

Il paesaggio è esito di tanti processi ibridi umani e non umani, di diversa origine e che hanno avuto percorsi diversi. Anzi, sono esiti, perché paesaggi sardi ce ne sono tanti. E non solo in agricoltura. L’attività estrattiva, per esempio, risale al VI millennio a.C. e, assieme all’industria mineraria sorta fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, così come l’impianto antichissimo di città, di luoghi di insediamento e di ambienti costruiti, caratterizza i paesaggi sardi non meno delle greggi al pascolo. Il paesaggio sardo è la nostra vita di Sarde e Sardi.

Non è distinguibile dalla nostra cultura particolare, come in tutto il mondo. È radicato perfino nelle nostre forme conoscitive. Talvolta è brutto, soprattutto quando è l’esito di attività estrattive, ma non solo minerarie. È brutto nelle sterminate ferraglie abbandonate sulla costa fra Porto Torres e Stintino, dove un tempo il sogno della Rinascita eterodiretta ha portato all’impianto del petrolchimico, è brutto nel paesaggio brullo e delavato prodotto dalla deforestazione piemontese, è brutto in certe coste violate da insediamenti turistici aggressivi, per non parlare delle tante installazioni militari abbandonate. In questi casi, è esito della subalternità dei Sardi e della mano libera sul nostro territorio che sempre si è voluta avere. Il loro abbandono ci ricorda che, dopo l’estrazione di valore, gli umani sono andati via, e non erano sardi. In genere erano legati alla matrice di dominio coloniale.

L’esempio delle miniere ci può aiutare a capire quello che ci sta accadendo oggi, con l’eolico. Se, infatti, l’attività estrattiva esiste da sempre, l’industria mineraria si è sviluppata secondo modalità che assomigliano in modo impressionante al disastro eolico che stiamo vivendo. Piccolo recap: torniamo al dominio dei Piemontesi, sempre loro, la vera matrice del colonialismo in Sardegna. Tutti conosciamo l’Editto delle Chiudende del 1820, con il quale la Sardegna, ancora sotto i Viceré e caratterizzata dal riformismo feliciano e dalla nascita di élite modernizzatrici sarde alleate con esso, introdusse la proprietà privata dei suoli.

Meno conosciuta è la Legge mineraria del 1840, con cui il sottosuolo diventò proprietà del Re, e con cui venne data una sistemata alle concessioni minerarie, che esistevano già in modalità Far West dal Settecento. Come è noto, l’interesse del grande capitale internazionale fece sì che tutte le concessioni andassero in quella direzione, con la sola eccezione della grande miniera di Montevecchio a Guspini. Esiste un legame di causa-effetto fra la Legge mineraria del 1840 e l’abolizione del Regno di Sardegna nel 1847 con le sue istituzioni indipendenti?

Non lo so, me lo sono sempre chiesto, in attesa che storico lavorino con coraggio sul nodo del colonialismo in Sardegna e ci forniscano risposte. Esiste il rischio che l’assalto eolico svuoti la nostra già traballante autonomia, così come è avvenuto nella trasformazione della Sardegna da regno autonomo nei suoi ordinamenti dopo la Legge mineraria? Certo che sì, è già successo con le ultime elezioni regionali, e mi riferisco a tutte le ultime quattro elezioni sarde.

Manca solo il suggello giuridico che, come ha osservato il prof. Andrea Deffenu in un recente evento di Progetto Sardegna dedicato alla legge elettorale sarda, non sarebbe difficile vista la crisi del regionalismo in Italia, l’ondata centralista e la straordinaria arrendevolezza di un elettorato sardo che sembra poco cosciente della propria condizione.

Mettere in evidenza il ruolo del paesaggio ha naturalmente un’importanza giuridica e costituzionale fondamentale, che aiuta l’azione politica e la riflessione di chi mette al centro il superamento e la critica di chi vorrebbe vedere la natura come un fenomeno separato dal sociale e dalla cultura, e in opposizione.

Purtroppo, sul crinale dell’opposizione all’idea di paesaggio o a simili concezioni non dicotomiche di natura-cultura, ci troviamo contro non solo le grandi organizzazioni o imprese che sulla nostra pelle impongono progetti energetici centralistici giganteschi, con effetti orrendi di ingegneria del paesaggio, oltre che di ingegneria sociale, ma anche una parte dell’ecologismo italiano (e perfino sardo) che ragiona in modo essenzialista, opponendo una natura priva di umano a una cultura priva di natura.

Tutte cose che ovviamente non esistono in pratica, ma si appoggiano su un immaginario potente e ancora dominante, soprattutto se la cultura è quella di un popolo dominato e svilito come il nostro. Parafrasando Gramsci, mi viene da pensare che oggi sia necessario analizzare assieme la situazione ambientale e il rapporto coloniale, per capirci qualcosa e agire di conseguenza.

 

 

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