Intervista a Tonino Casula [di Roberta Vanali]

frame casula

Quella di Tonino Casula (Seulo, 1931), eclettico e infaticabile sperimentatore, è una analisi sui limiti percettivi e sulle metodologie scientifiche applicabili all’arte tra realtà e simulazione, ovvero “una sfida da spingere ai limiti dei processi conoscitivi e da impiegare nel loro montaggio e rimontaggio” per citare Corrado Maltese. Nel 1965 fonda il Gruppo Transazionale e nel 1970 il Centro di Arti Visive. Sono gli anni in cui realizza diversi murales, perlopiù con Gaetano Brundu tra Monastir e Settimo San Pietro. Nel 1975 entra a far parte della scuderia della Galleria Duchamp e alla fine degli anni Ottanta dà vita alle prime computer graphics. Tra giustapposizioni e trasparenze negli anni novanta nascono le Diafanie, che preferisce utilizzare in ambito teatrale, seguite dai Cortronici, cortometraggi elettronici bidimensionali che nel 2005 conquistano la terza dimensione.

Anna Maria Janin scrive che al principio del tuo percorso l’interesse dominante era quello di analizzare il rapporto tra occhio e cervello. Da cosa nasce?

Dal fatto che, nato con un visus ridottissimo (1/50 all’occhio sinistro, 1/25 al destro) sono venuto alla luce per la seconda volta all’età di 33 anni, dopo un’operazione agli occhi (quasi 8/10 di visus). Poiché si impara a vedere come si impara a camminare, ho affinato il mio apprendistato e le mie competenze sul visivo, fino a scriverci un libro (Tra vedere e non vedere – Einaudi) che puoi scaricare gratis dal mio sito (www.toninocasula.net). L’evento ha coinciso col periodo in cui andava l’optical art, lo stesso in cui nasce il Gruppo Transazionale, che a sua volta ha contribuito ad accrescere la mia competenza sul visivo: per il Gruppo, uno degli intenti riguardava la messa a punto di uno statuto scientifico applicabile all’arte, dunque, non era cosa di poco conto capire i processi della percezione visiva.

Mi spieghi l’origine del Gruppo Transazionale e in quale modo ha mutato il tuo fare artistico?

Il Gruppo nasce nel 1965, dopo un tempo di gestazione di circa un anno, in un periodo in cui la società si divideva tra chi progettava una collettività che mette a disposizione dell’individuo quanto gli serve per realizzarsi, e chi progettava una collettività dove l’individuo se la cava tutto da solo. Si trattava di un disegno politico che situava a sinistra ogni forma di raggruppamento collettivistico, mentre la destra privilegiava la competizione individuale. Si capisce che i Gruppi si ponevano di fatto sinistra, per quanto a nessuno sfuggiva che l’atto creativo nasce proprio da processi marcatamente individuali. L’ambizione trainante del Gruppo Transazionale era di avanzare una poetica che non fosse la stessa degli altri Gruppi. Cosa che si rese possibile, attivando una dialettica culturale tra l’impostazione Gestaltica di questi ultimi, rivolta all’isomorfismo innato di forme fisiche e forme mentali, e il criterio Transazionale, derivante dal pragmatismo di Dewey, tutto rivolto ai portati dell’esperienza. Molti anni più tardi, l’amicizia di Gaetano Kanizsa, il massimo gestaltista italiano, mi convinse che la polemica tra gestaltisti e transazionisti, nata da un famoso libro di Rudolf Arnheim (Arte e percezione visiva) risiedeva nella testa degli artisti come me, più che in quella degli scienziati come lui. Tuttavia, lo statuto riservava agli artisti più che agli scienziati il diritto di riempirsi la testa di ciò che volevano.

Esiste un manifesto del Gruppo Transazionale, quali erano i dettami che condividevi con Ugo Ugo, Ermanno Leinardi e Italo Utzeri?

Eccolo:”Pur consapevole della precarietà delle ipotesi, il Gruppo Transazionale propone una visione dinamica della realtà, impegnandosi ad esprimere, con metodo sperimentale, l’incessante fluire di verità provvisorie da continui scontri dialettici di ragione, pulsioni inconsce, componenti ambientali di ogni genere, che transagiscono, avanzando irripetibili e mai definitive soluzioni tra le tante possibili”.

Qual è invece la costante che attraversa il tuo percorso artistico?

Non so (non voglio) rispondere a questa domanda, che lascio ai critici i quali, dopo una visita di 5 minuti in studio, sono già in gradi di spiegare a me cosa sto facendo, mentre la sto facendo e non ho ancora finito di farla. Se ne trovi uno in giro, chiedi a lui qual è il mio percorso creativo: te ne descriverà uno adattabile a qualsivoglia artista, mettendoti davanti una catasta di bugie, come del resto potrei fare anch’io, sia pure con l’attenuante dell’ironia.

In cosa consistono le Diafanie?

Consistono nella proiezione alternata di diapositive realizzate col pc. Queste vengono gestite da due proiettori AV che le mandano in sequenza con dissolvenze in entrata e in uscita, su un’unica superficie di proiezione. A me piace chiamarle diafanie, perché sono vanitoso e voglio far credere al mondo che si tratta di qualcosa che faccio solo io. In realtà il sistema è noto, chi sa da quanti decenni, come multivision. Le diafanie nascono dopo le computer graphics, che ottenevo passando più volte il foglio in una stampante ad aghi caricandole di colore che variava a seconda che i rulli dell’inchiostro fossero più o meno consumati. Ma l’uscita dalla stampante non mi sembrava coerente sul piano linguistico (erano ancora somiglianti alle cose che si appendomo al muro, e io non ne potevo di quelle a forma quadrangolare, chiamati quadri). Invece, le diafanie non avevano bisogno di chiodi e attaccaglie. Inoltre, i loro luoghi non erano gli spazi delle gallerie d’arte (anche di quelle non ne potevo più), ma gli spazi dello spettacolo, che speravo meno noiosi, anche se capii ben presto che non era vero.

E i Cortronici?

Sono video astratti che, con la stessa logica delle diafanie, mi piace chiamare cortronici, cioè cortometraggi elettronici, un gioco linguistico che mi venne in mente dopo che il poeta visivo Gianni Toti, che incontrai all’electronic art festival di Camerino di quale anno non ricordo più, mi definì pittronico (pittore elettronico), mentre egli si definiva poettronico (poeta elettronico). Data l’indicibilità delle immagini e della musica, o se preferisci, data la loro ineffabilità, per capire con occhi e orecchie di cosa si tratta, navigare per qualche tempo nel mio sito dove potrai guardartene qualcuno. Per utilizzare ancor meglio il tempo, visto che ci sei, puoi scaricare non solo Tra vedere e non vedere, ma anche le tesi di laurea di Gianni Murtas, Marco Ferrazza e Alice Cardia, tutti bravi ragazzi che si sono spellati il cervello, per dimostrare a chi li ha laureati con 110 e lode, che hanno avuto a che fare col più grande artista vivente. A parte ciò, scoprirai che i cortronici si muovono, sia quelli in formato 2d che quelli in formato 3d, in direzione del cinema astratto, una cosa che per il momento non va, ma che andrà certamente in futuro, dopo che gli attuali gestori pubblici dell’arte in Sardegna, verranno sostituiti per l’inevitabile emorragia di vita che colpisce tutti, e quando anche la mitica casalinga di Voghera sceglierà di vedere un film, al cinema o a casa, senza sentire più il bisogno di farsi guidare da una storia, spesso cretina. Del resto le capita già ora, quando compra le tende, di non preoccuparsi se esse non sono decorate con figure di farfalle fiori pappagalli.

Cosa ricordi con maggior piacere dell’epoca della Galleria Duchamp?

Ricordo il clima culturale che si respirava allora a Cagliari, con l’Università popolata dai migliori cervelli di allora, tutti interessati ai problemi dell’arte di cui si occupavano da diverse posizioni e punti di vista, mentre frequentavano anche il mio studio, dove gli interessi si concretizzavano in interessi comuni, nella condivisione di metodologie che a noi artisti era permesso riciclare nel nostro lavoro, dopo averle depredate a linguisti e sociologi.

Quali differenze riscontri tra la realtà artistica dell’epoca e quella contemporanea?

Io sono ancora interessato a un approccio scientifico al mio lavoro, visto che l’arte è lo strumento di conoscenza più potente. Oggi, si tende a portare quello strumento più in basso, all’altezza dell’ombelico, dove staziona quella squisita sensibilità che induce spesso a discorsi da osteria, e siccome non c’è chi non si senta squisitamente sensibile, i valori della realtà artistica contemporanea si sono abbassati a quell’altezza.

Qual è il tuo parere sulla direzione della Galleria Comunale?

Pessimo. Ma non ti dico perché, neppure sotto tortura.

Perché ritieni che i critici d’arte siano insopportabili?

Perché, come ho già detto, dopo una visita di 5 minuti nel mio studio, pretendono di spiegare a me cosa sto facendo, mentre la sto facendo e non ho ancora finito di farla. Se ne trovi uno in giro, sicuramente rivelerà anche a te quanto crede d’aver capito di ciò che gli artisti fanno, mentre essi stessi non l’hanno ancora capito. Meno male che sono una razza in via di estinzione.

La tua partecipazione alle mostre e diventata oramai una rarità, puoi spiegarci il motivo?

Non faccio più cose da appendere al muro, e questo mi mette al riparo dalla Santa Messa delle Inaugurazioni con l’artista presente il catalogo in galleria i salatini e le olive nere e il vino rosso da bere nei bicchieri di plastica. Sono in attesa di architetti che, oltre a progettare il bagno con vasche che massaggiano, progettino la stanza delle meraviglie anche per la casalinga di Voghera, il luogo più prezioso, dove le immagini si formino davanti dietro sopra sotto a mano automaticamente piatte tridimensionali, lasciando gli spazi anche per qualcosa di buono da appendere al muro, perché no.

A cosa lavori in questo frangente e quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Continuo a muovermi nel mio mondo, anche se, per ora, me la suono e me la canto tutta da solo. Per quanto riguardano i progetti, ti confido un segreto: alla mia età essi si rinnovano di semestre in semestre, all’ombra di due domande contigue: supererò la prossima estate? Supererò il prossimo inverno?

 *Critica e curatrice d’arte contemporanea

 ** Foto:Frame dal cortronico 2d “Attento a dove metti gli occhi”, 6’8’’ DVD, 2013.

 

3 Comments

  1. Francesco Frigo

    Piaccia o meno la concezione che Tonino Casula ha dell’arte, della sua funzione e di quanto attorno ad essa gravita (cosa che, è evidente, egli tiene in assoluto non cale), il personaggio è di una caratura fuori dal comune, dotato com’è di una dialettica formidabile, di chiarezza e capacità di sintesi sbalorditive, di un’esposizione ‘didattica’ dei concetti a prova di imbecille.
    Le grandi intelligenze sono spesso grevi, pedanti, noiose. Il Casula è di una godibilità assoluta, persino quando appare infastidito da domande che egli sembra domandarsi perché mai gli vengano poste.

  2. salvatore ligios

    Tra vedere e non vedere propongo la candidatura di Tonino Casula a testimonial di Cagliari capitale europea della cultura.

  3. Tonino lo conosco da anni e conosco la sua simpatia e il rigore del suo lavoro. Un alchimista sempre a caccia

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