La comunicazione, la fiducia, la partecipazione e il potere [di Silvano Tagliagambe]

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Giusto tre anni fa con Dario Antiseri e Paolo Maninchedda abbiamo pubblicato da Rubbettino un libro intitolato La libertà, le lettere, il potere, Rubbettino. Nel suo contributo Maninchedda approfondiva la questione del rapporto tra le scienze filologiche, da una parte, e la religione e il potere, dall’altra così come si è venuto storicamente configurando e sviluppando. Lo scopo era quello di sottolineare che, non essendo la filologia una disciplina dotata di prodigiosi metodi capaci di svelare definitivamente la verità del passato o dell’uomo, essa esige da chi la esercita la piena consapevolezza dell’opinabilità e della verificabilità del suo lavoro, la necessità di renderne espliciti i presupposti e gli svolgimenti e di esibire e socializzare le prove del suo argomentare, la capacità di sottrarsi alla tentazione di porsi al servizio di una tesi (o di un sistema di tesi) pre-ordinata.

A queste condizioni «interne» ne va aggiunta una, fondamentale, «esterna»: la possibilità di svolgere questa professione in uno Stato che difenda la libertà, il pluralismo, la diversità e la tolleranza e che quindi agevoli e sostenga l’impegno per la verità storica. È qui, concludeva l’autore, che la questione della formazione umanistica si salda in modo indissolubile con l’esercizio della democrazia e con la difesa di un clima generale che la rende effettivamente praticabile.

Oggi il professor Maninchedda, nella sua nuova funzione di assessore della Giunta regionale, sembra porsi il problema da una prospettiva diversa, che sacrifica, almeno in parte, l’esercizio dello spirito critico all’operatività e al fare. Il suo ragionamento attuale si basa infatti sulla convinzione che la Sardegna sia divisa in due: da una parte i pochi e illuminati consapevoli che è necessario produrre lavoro e reddito in una fase recessiva, cioè in una fase in cui non si produce ricchezza e si consuma risparmio; dall’altra i tanti, troppi, che parlano di tutto e di più, evitando accuratamente questa questione centrale e non solo enfatizzano altri argomenti, ma appaiono interessati ad “impedire che la crisi intacchi i ruoli che nel tempo sono stati costruiti intorno a determinati temi”.

Un residuo della posizione precedente permane nell’analisi odierna, quando si ammette che a sbagliare, almeno un po’, è anche la Giunta perché fa molto e si spiega poco o nulla, e senza comunicazione non solo l’informazione zoppica, ma diminuisce anche la partecipazione. Le conseguenze che vengono tratte da questo difetto originario non sono invero da poco: “Mancano tutti i piani della partecipazione. Manca il dibattito politico (e questa non è certo una responsabilità della Giunta); manca il dibattito nei partiti sui grandi temi (e questo è un problema planetario); manca la coscienza dei grandi temi (e questo è il risultato del post-autonomismo che aspetta che venga dettata dall’esterno l’agenda politica); manca una normale vita di Consiglio, che è naturalmente solidale e dialettica con la Giunta; manca la capacità della Giunta di introiettare e rappresentare al suo interno i partiti; manca la capacità dialettica di difesa rispetto alle lobbies parassitarie, quelle che nascondono dietro battaglie di principio una banale difesa di rendite di posizione; manca il senso della Sardegna come Stato, come responsabilità, come sfida, come dovere”.

Minimizzare queste mancanze, registrate con questa brutal franchezza, sembra davvero problematico. Eppure la conclusione che viene tratta appare figlia della tensione al fare del Maninchedda assessore e politico più che dell’analisi critica del Maninchedda fine filologo: “La Sardegna è una nazione a sovranità limitata in una fase storica in cui il mondo sta producendo soggetti, non Stati, a sovranità concentrata e Stati a sovranità concessa, revocabile e marginale.Per stare in questa situazione difficile e combattere per la nostra libertà, bisogna sempre avere una grande idea in testa, cioè avere degli scopi e non essere in balia delle bolle comunicative del presente.

Bisogna avere idee in proprio, non leggere i giornali per scegliere l’idea del giorno o, peggio, iscriversi a lobbies intellettuali. Il lobbismo è la malattia della recessione italiana. Si reagisce al rischio con la logica del branco. E c’è anche un lobbismo intellettuale un po’ rituale, in cui gli stessi soggetti si fanno le domande e si danno le risposte, anche loro per la competizione su quattro soldi pubblici”.La convinzione generale che accompagna e condisce questa analisi è che la vera emergenza sarda derivi da un impoverimento culturale: “alla recessione economica si accompagna una grave recessione culturale della classi dirigenti sarde. Il tema da mettere sul tavolo, dialetticamente, cioè in modo anche un po’ rude, è questa povertà culturale diffusa, spesso mascherata con la ricerca spasmodica di un responsabile diverso da sé”.

L’idea guida che emerge è che la comunicazione, e la partecipazione e il confronto dialettico da essa stimolati, non siano funzioni interne all’attività politica, inscindibili da essa, ma un «poi» auspicabile che non può che seguire il «prima», indipendente e autonomo, delle grandi scelte, che vanno fatte “senza leggere i giornali” e senza farsi condizionare dalla logica stantia del “lobbismo intellettuale un po’ rituale”. Da questo punto di vista alla Giunta regionale, impeccabile nel fare e quindi nella fase essenziale e decisiva delle grandi scelte strategiche, può tutt’al più essere rimproverato il piccolo neo di non essere pronta ed efficace nella fase, ex post, di comunicazione di queste opzioni di fondo.

La domanda che sorge spontanea è dove siano finiti, in questa rappresentazione della situazione, “il pluralismo, la diversità e la tolleranza che devono agevolare e sostenere l’impegno per la verità storica” di cui parlava Maninchedda quando si occupava, da studioso, del problema del rapporto tra il linguaggio, la filologia e il potere. Perché proprio la questione del radicale mutamento del modello di sviluppo, da quello giustamente considerato non più sostenibile a uno alternativo che risulti più efficace, pone un problema che non può essere eluso: quella del processo decisionale attraverso il quale può essere consensualmente operato questo cambiamento.

Per illustrare questo aspetto è utile riproporre un arguto esempio proposto da Amartya Sen nel suo fondamentale saggio del 2009 L’idea di giustizia. Tre bambini (che chiamiamo convenzionalmente A, B e C) si contendono la proprietà di un flauto e decidono di procedere per via condivisa, argomentando le ragioni a sostegno delle loro rispettive rivendicazioni. A sostiene che il flauto spetta a lui perché è l’unico a saperlo suonare: gli altri due confermano di non essere in grado di farlo. B legittima la sua richiesta con il fatto, ammesso anche dai suoi competitori, di essere l’unico povero, privo di qualunque cosa alternativa con la quale potersi svagare. Infine C pone sul tavolo il suo ruolo di progettista e costruttore dello strumento, che gli altri non esitano a riconoscergli. Tra i tre contendenti non sussiste quindi alcuna divergenza sui dati di fatto: però ciascuno trae da essi conclusioni operative differenti e si propone come il legittimo pretendente al possesso dello strumento.

Quello che Sen vuole spiegarci con questo aneddoto filosofico è che non esiste soluzione possibile se ABC non individuano e non condividono una via d’uscita basata su un criterio di scelta di cui tutti e tre ammettano la legittimità. Si tratta della stessa indicazione fornita da Wittgenstein nelle riflessioni alle quali egli dedicò gli ultimi anni della sua ricerca con note scritte dall’estate del 1949 fino a due giorni prima di morire (29 aprile 1951), poi pubblicate postume col titolo Della certezza. Il tema trattato è quello della fiducia e/o credenza nella legittimità delle regole proposte per assumere una decisione in presenza di valutazioni differenti degli stessi fatti. La risposta è fornita nei paragrafi 341 e 509 dell’opera indicata.

Rispettivamente “Le domande che poniamo e il nostro dubbio riposano su questo: che certe proposizioni sono esenti da dubbio, come se fossero i perni sui quali si muovono quelle altre”; e “Un gioco linguistico è possibile se ci si fida di qualcosa”. «Fidarsi di qualcosa» vuol dire aver fiducia di chi detta o ha dettato le regole e, in ragione di ciò, dare il proprio consenso a esse. La coesione e la condivisione, indispensabili per tenere le decisioni e le scelte al riparo dai conflitti, esigono certezze al di fuori di ogni dubbio. Come conclude il paragrafo 396, “la forma primitiva del gioco linguistico è la certezza, non l’incertezza. Poiché l’incertezza non potrebbe portare all’azione”.

Allora, a meno che non si pensi che esiste un’unica alternativa possibile al modello di sviluppo della Sardegna che si intende accantonare, in quanto lo si ritiene giustamente anacronistico e ormai inefficace, e che qualcuno possieda in esclusiva le chiavi e la ricetta di quest’unica soluzione, il problema che la politica regionale si trova ad affrontare è ben esemplificato dal gioco competitivo proposto da Sen.

Anche in questo caso, dunque, non è possibile cavarsela dicendo, ad esempio, il flauto non può che essere mio perché io lo so suonare e voi no o, come adombra Maninchedda in un inciso che davvero si poteva risparmiare, in quanto rischia di innescare una sterile gara a chi ha la pagella migliore, perché noi siamo gli illuminati “che hanno preso sempre il massimo dei voti”.

Dallo stallo non si può venir fuori se non ci si fida di qualcosa e, soprattutto, di qualcuno. La fiducia, però, non è un pasto gratis: la si deve conquistare, e la comunicazione, leale e trasparente, è un elemento imprescindibile della strategia di conquista. Per questo la comunicazione medesima non può essere considerata un fattore accessorio, un optional del gioco politico, ma ne è, a tutti gli effetti, una condizione interna dalla quale non si può prescindere. Né essa può essere assimilata a un’azione a posteriori, successiva alle scelte fatte e avente esclusivamente la funzione di spiegare al colto e all’inclita perché si è presa una determinata decisione, senza mai mettere preventivamente in discussione la decisione stessa. Se si rispondesse che la legittimazione di quest’ultima scaturisce dal consenso elettorale bisognerebbe, quanto meno, mostrare che essa era ben presente e chiaramente esposta nel programma sottoposto alla valutazione degli elettori.

Esemplifichiamo, restando agli spunti che ci sono offerti dalla cronaca di questi giorni. Si ritiene, oppure no, che del nuovo modello per far crescere Sardegna e migliorarne le prospettive di sviluppo debba o possa ragionevolmente far parte il pacchetto di misure, deliberato dal governo nazionale, con il quale viene stabilito che per la valutazione dei tassi di inquinamento nelle aree del demanio destinate a uso esclusivo delle forze armate per attività connesse alla difesa nazionale, vengano applicate le concentrazioni di soglia di contaminazione previste per l’industria?

O ancora, visto che la scuola e l’istruzione sono stati presentati dall’allora candidato Pigliaru come il perno sul quale si devono muovere tutte le misure da prendere, per attualizzare il linguaggio di Wittgenstein, come la mettiamo con i risultati del recente studio del Censis, dal quale emerge che il sistema educativo non solo sta perdendo la tradizionale capacità di garantire opportunità occupazionali, ma è percepito sempre più come inutile? Esso sembra infatti aver perso la sua funzione di ascensore sociale, come attesta il fatto che al primo ingresso nel mondo del lavoro solo il 16,4% dei nati tra il 1980 e il 1984, è salito nella scala sociale rispetto alla condizione della sua famiglia, mentre il 29,5% è invece sceso sotto quel livello di partenza, per cui l’ascensore è andato in giù.
Cosa questo significhi a livello locale ce lo dice con efficacia l’angosciosa domanda che si è posto nei giorni scorsi Umberto Cocco, sindaco di Sedilo: “Cosa ne sarà del mio paese, e in che condizioni è la scuola, se 10 ragazzi sono stati bocciati o si sono ritirati, di 17 che hanno finito le medie un anno fa e si erano iscritti alle superiori? Comunque venga classificato questo esito, come dispersione o mortalità, sembra poco reversibile”.
La conclusione che ne viene tratta suona come un ben preciso campanello d’allarme sulle scelte da fare: “Al pensiero che in Sardegna stia succedendo quel che è accaduto a Sedilo quest’anno, che più della metà dei ragazzi che hanno cominciato le scuole superiori ne sono espulsi, c’è da essere meno ottimisti sul futuro e da guardare con rimpianto il passato, anche questo presente. Non soltanto un problema di future classi dirigenti si propone, ma di elementare capacità di stare al mondo e in una democrazia”. E ancora, a proposito di modello di sviluppo: “Le zone interne, le aree e le comunità rurali hanno in Sardegna un passato magari mitizzato ma nel quale davvero le famiglie dei pastori sono riuscite per alcuni decenni dal secondo dopoguerra, a fare studiare e laureare almeno un figlio e una figlia, con orgoglio emancipativo, magari sì anche piccolo borghese, ma è diventata un’antropologia. Sedilo vanta poco meno di 200 laureati fra i 2.200 residenti, in maggioranza donne. Ora non solo non funziona più quel modello culturale, ma far studiare i figli è un investimento costoso per famiglie i cui redditi sono più incerti di quelli dei contadini e dei pastori negli anni ’60 e ’70”.

Se le cose stanno così, ed è davvero difficile negarlo, le scelte da fare per riorientare in maniera complessiva la direzione di marcia della Sardegna sono impegnative e dolorose e non possono essere fatte senza il coinvolgimento, la partecipazione e la condivisione di tutti coloro che fanno propria l’esigenza di sconfiggere le lobbies parassitarie e le rendite di posizione, ma vogliono sapere come, con quale prospettiva alternativa concreta, per essere motivati a dare fiducia a chi li governa, e a farlo in modo consapevole.
Se si vuole raggiungere questo risultato, che personalmente giudico irrinunciabile, lo schema manicheo della divisione dell’isola in due, tra chi ha le idee chiare e sa cosa fare, ed è quotidianamente impegnato a realizzarlo, e chi invece si limita a parlare (o, per essere più aderenti alla semplificazione proposta, a straparlare) sembra non solo inadatto per la sua schematicità, ma francamente controproducente. Occorre un’analisi molto più fine e profonda: e a questo proposito il Maninchedda professore di filologia potrebbe dare qualche utile lezione al Maninchedda politico e a chi la pensa come lui.

 

 

3 Comments

  1. Simone Lastretti
  2. Pingback: Pigliaru non dialoga (e dunque non comunica). E l’economia della conoscenza? Abbandonata al suo destino… - vitobiolchini

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