Una semplice domanda in attesa di risposta [di Silvano Tagliagambe]

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Le dietrologie, la tendenza a imputare a motivazioni e interessi privati le prese di posizione pubbliche magari fanno guadagnare qualche punto nel confronto dialettico ma non cancellano la sostanza dei problemi e tantomeno aiutano a risolverli. Vale allora la pena di ribadire, contro ogni interpretazione maliziosa, che le questioni al centro del mio ultimo intervento su queste colonne erano due, sollevate da pensatori autorevoli.

La prima se l’è posta Churchill, il quale ebbe a chiedersi, da potente primo ministro inglese, come interpretare il suo ruolo evitando che “i nostri civil servant divengano i nostri «incivili padroni», padroni che cercano di trincerare il loro potere e la loro autorità in modo da renderli inespugnabili. Domanda che non ha certo perso la sua attualità, visti i recenti fatti della cronaca politica italiana.

La seconda, che ha tormentato un filosofo del calibro di Wittgenstein fino agli ultimi giorni della sua vita, può essere sintetizzata nell’esigenza di stabilire come comportarsi quando, all’interno di un sistema sociale, le forme di vita e le relative finalità entrano in conflitto, rischiando di inibire ogni possibilità di scelta e d’azione e di portare alla paralisi. In note scritte sei giorni prima di morire (23 aprile 1951) egli evidenziava a tale proposito le che le vie praticabili sono due:

1. La delegittimazione dell’altrui forma di vita: “Dove si incontrano effettivamente due principi che non si possono riconciliare l’uno con l’altro, là ciascuno dichiara che l’altro è folle ed eretico” (Della certezza, par. 611);
2. La persuasione: “Ho detto che ‘combatterei’ l’altro – ma allora non gli darei forse ragioni? Certamente, ma fin dove arrivano? Al termine delle ragioni c’è la persuasione. (paragrafo 612).

È facile vedere come le due questioni siano intimamente correlate. Alla prima ha cercato di dare una risposta Popper ne La società aperta e i suoi nemici, che uscì nel 1945 in due volumi. Qui, partendo dalla constatazione del forte legame che sussiste tra la democrazia quale si è sviluppata nelle società occidentali e la scienza, dimostrato dal fatto incontestabile che quest’ultima non solo è nata, ma si è potuta sviluppare realmente solo in quelle società, assumendo per la prima volta la funzione di base della vita economica, egli compie una mossa ardita.

Quella di porre a fondamento della politica lo stesso criterio che caratterizza una teoria scientifica e la legittima, vale a dire la possibilità di essere controllata in ogni suo aspetto ed esposta ai rischi della falsificazione. Sulla base di questa analogia una posizione sensata circa il governo di una società libera non deve partire chiedendosi «Chi deve governare?», ma piuttosto deve trovare una risposta alla seguente questione: “Come possiamo organizzare le nostre istituzioni politiche in modo tale che governanti non saggi o cattivi non ottengano eccessivo potere, e non possano fare troppo danno?“.

Questo è un approccio più sensato, perché tiene conto dell’esperienza storica, la quale ci dice che i governanti sono spesso non saggi, e anche della circostanza che non esiste un metodo infallibile per scegliere governanti saggi. Noi, secondo Popper, dobbiamo guardare seriamente e criticamente a tutte le nostre istituzioni politiche e alla nostra stessa società. Vi è infatti sempre molto da criticare; vi è sempre molto spazio per un miglioramento e, comunque, vi è sempre la necessità di vigilare e controllare.

Da questo punto di vista buon governante non è quello che si limita ad accettare passivamente di essere controllato, ma si comporta attivamente in modo non solo da rendere possibili, ma da facilitare e stimolare i controlli. Il suo programma sarà pertanto elaborato in modo da essere falsificabile, cioè da mettere i cittadini in condizioni di esercitare il loro diritto/dovere di critica, di stabilire cioè di poter stabilire in modo chiaro se, dove e come esso non è stato correttamente interpretato e attuato. Lo stesso principio dovrà essere posto alla base dell’azione politica concreta e delle scelte e decisioni che vengono prese quotidianamente.
Va da sé che un simile criterio di buon governo mette immediatamente fuori gioco i programmi fumosi, elaborati in modo da dire ciò che si intende fare in forme così generiche da non prestarsi ad alcuna effettiva possibilità di controllo e di valutazione. A maggior ragione andranno escluse le formulazioni viziate dal difetto capitale dell’incoerenza, con principi, propositi, obiettivi e valori in palese contrasto tra loro: la coerenza interna, infatti, è la condizione “sine qua non” per evitare che i nostri edifici teorici e le nostre azioni siano minati alla base. Ex falso sequitur quodlibet, da premesse false proprio in quanto in contraddizione reciproca si può ricavare tutto e il contrario di tutto, con conseguente impossibilità di qualsiasi serio giudizio di conformità tra le dichiarazioni e le azioni.

Veniamo ora alla seconda questione, quella posta da Wittgenstein. Se è vero che la forma primitiva del “gioco linguistico” della politica è la certezza, perché l’incertezza non può portare all’azione, il problema che il buon governante deve porsi è come arrivare a questa certezza. Il paragrafo 358 dell’ultima opera del filosofo viennese, quella alla quale ci stiamo qui riferendo, dà una risposta illuminante: “io vorrei considerare questa sicurezza non come qualcosa d’affine all’avventatezza o alla superficialità, ma come una forma di vita”. Parlare di “forma di vita” significa riferirsi non a qualcosa di contingente ed estemporaneo, bensì a un abito sociale diffuso e radicato, che sia espressione della “fiducia in chi detta o ha dettato le regole” e, in ragione di ciò, della disponibilità comune “a dare il proprio consenso alle regole del gioco. Seguire la regola presuppone quindi credere che la forma di vita che genera e giustifica quella regola sia al riparo da ogni dubbio” (par. 509).

La buona politica e l’azione di governo efficace si trovano, a mio parere, nel punto di convergenza tra le due risposte, quella di Popper e quella di Wittgenstein, alle questioni che ho cercato di porre al centro dell’attenzione. Esse presuppongono persone e istituzioni che, godendo prestigio, avendo autorevolezza e ispirando fiducia, riducono al minimo possibile la paralizzante incertezza sulle scelte da operare e sulle decisioni da prendere.

Proprio sulla base di queste premesse ieri mi ponevo, a mia volta, una semplice domanda. È possibile pervenire a quella possibilità di valutazione e di controllo effettivi, alla quale si riferisce Popper, o conquistare quella sicurezza di cui parla Wittgenstein, lontana dall’avventatezza e dalla superficialità, senza la comunicazione, senza lo scambio dialogico, tagliando programmaticamente ogni canale di interazione con tutte le forme, più o meno organizzate, di espressione dell’opinione pubblica? A sostegno della legittimità e dell’importanza di questa domanda oggi mi limito a ricordare che Hannah Arendt, nel suo Vita activa, ha giustamente sottolineato che la crisi della politica, che sta caratterizzando la società contemporanea nel suo complesso, ha molto a che fare con l’indebolimento di quello che ella chiama lo “spazio infra”, quell’infra da cui originano leggi e costituzioni.

A suo giudizio il singolo, nel suo isolamento, non è mai libero e la libertà, pertanto, trae sempre origine dall’infra che si crea soltanto finché le persone rimangono e si esprimono insieme, dialogano e si confrontano. Per questo “l’infra è ciò che è autenticamente storico-politico […]; non è l’uomo a essere uno zoon politikon, o a essere storico, ma gli uomini, nella misura in cui si muovono nell’ambito che sta tra di loro” (H. Arendt, Diario filosofico. Frammenti (1950-1964), riportato in ‘Micromega. Almanacco di filosofia’, n. 5, 2003, novembre-dicembre, 32).
Se dunque il concetto di pluralità, come possibilità di esistenza dell’infra, è importante e irrinunciabile per definire la libertà politica, rientra, oppure no, tra i compiti e i doveri di chi governa alimentarlo attraverso il dibattito e il confronto, che a loro volta presuppongono necessariamente una comunicazione continua, leale e trasparente? Questa è la semplice domanda che ponevo ieri e che considero ineludibile, ad onta di tutte le interpretazioni più o meno maliziose della ragioni per cui la rivolgo.

 

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