Elogio dell’ imperfezione in politica [ di Silvano Tagliagambe]

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Proverò ad argomentare una tesi apparentemente paradossale, ma della cui plausibilità mi vado tuttavia convincendo sempre più: che il problema principale della politica italiana di questi tempi sia il suo eccesso di perfezione. Per capire perché pensiamo a un bonzo che in Giappone, nelle vicinanze di un tempio, prega silenziosamente al cospetto di una tela bianca. A chi gli chiedesse perché risponderebbe che quella tela è il solo modo possibile di rappresentare la divinità e la perfezione, perché in essa sono virtualmente contenute, in forma implicita, tutte le informazioni disponibili, e quindi tutto lo scibile del quale solo Dio può essere padrone. Lo spazio vuoto di cui quell’oggetto di preghiera è espressione è infatti omogeneo e isotropo, sede di una simmetria assoluta, dato che all’interno di esso tutti i punti sono equivalenti e ognuno di essi è un centro di simmetria. Ne consegue l’impossibilità di operare qualsiasi distinzione, dalla quale deriva, viceversa, la possibilità di contenere, implicitamente, tutti i possibili significati. La perfezione è dunque strettamente associata alla capacità di contenere a livello potenziale e di esprimere qualunque cosa.

Per creare un’immagine qualsiasi bisogna scavare nella tela il segno, imprimendo anche un solo punto-origine, che è sufficiente per rompere la simmetria dell’indiscernibile e per stabilire un criterio di ordine per tutti gli altri punti, prendendone in considerazione, ad esempio, la distanza da quel punto-origine. Per passare dall’indiscernibile al discernibile, dal virtuale all’attuale, dal possibile all’effettuale occorre dunque rompere la simmetria rispettandone però le regole, dalle quali non si può prescindere se si vuole identificare e definire, a partire dall’infinita varietà di significati potenziali, un numero limitato di significati concretamente espressi.

La simmetria può essere quindi veramente colta solo quando la si rompe, come ci ha mirabilmente mostrato Fontana con le sue fenditure, grazie alle quali siamo messi in grado di percepire la simmetria della superficie bianca del quadro che viene infranta. Per gli aspetti indicati la simmetria è il solo modo possibile di rappresentare la perfezione, proprio perché è indiscernibilità e invarianza, è l’incorruttibilità, l’assoluto, il cambiamento che non produce cambiamento, dato che è invarianza della struttura per effetto della trasformazione e, di conseguenza, il non cambiamento per effetto o quale risultato di un cambiamento.

Lo stretto nesso così istituito tra simmetria e perfezione ci autorizza a estendere a quest’ultima tutto ciò che è stato detto della prima. Anche la perfezione, pertanto, è CAMBIAMENTO CHE NON PRODUCE CAMBIAMENTO ALCUNO: e anch’essa può essere percepita e colta solo quando la si viola e la s’infrange. C’è un altro tratto distintivo della simmetria che ci fornisce una chiave interpretativa utile per comprendere la perfezione. Si tratta del fatto che, proprio in quanto caratterizzata dall’invarianza della struttura per effetto della trasformazione, essa è anche indiscernibilità della trasformazione e indifferenza della struttura medesima, ma anche dell’osservatore, rispetto a essa.

Per questa via si può stabilire un altro aspetto della perfezione, evidenziato, questa volta, da Robert Pirsig in quel romanzo atipico di notevole profondità che è Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Qui l’autore ci fa presente che lo scadimento della qualità di ciò che viene realizzato oggi non può, contrariamente a ciò che molti ritengono, essere imputato alla tecnica in sé considerata. Quest’ultima, infatti, in quanto produzione di un qualcosa, non si distingue dalle arti, che possono anch’esse venire considerate espressione della medesima abilità di fare, della perizia e competenza nell’operare, come del resto avevano ben compreso i Greci, i quali non a caso usavano originariamente la radice della parola “tecnica”, τέχνη, per indicare, appunto, l’arte.

Né la mancanza di qualità può in qualche modo essere imputata ai materiali usati dalla tecnologia moderna, come pure spesso si dice, in quanto, caso mai, la plastica e i prodotti fabbricati in serie rimandano per associazione a cose brutte, cioè a cose senza qualità, ma non sono scadenti o brutte intrinsecamente. La bruttezza sta invece nel rapporto tra chi produce la tecnica o la tecnologia e le cose prodotte: ed è proprio questo rapporto originario infelice a riflettersi, condizionandola, sulla relazione tra chi usa la tecnologia e le cose usate. Questa relazione e quel rapporto, a giudizio di Pirsig, sono insoddisfacenti e generano, dunque, oggetti o sistemi altrettanto insoddisfacenti sotto il profilo della qualità, in quanto sia chi produce artefatti, sia chi li usa non riesce a immedesimarsi in essi, cioè a sentire alcun particolare senso d’identità e di compenetrazione e assimilazione con gli oggetti prodotti. Da questo punto di vista la creatività, l’abilità, la capacità di fare qualcosa di bello possono, come primo passo, essere considerate il risultato di una particolare condizione mentale, in seguito alla quale chi opera e produce NON SEPARA SE STESSO DAL PROPRIO LAVORO, MA VI S’IDENTIFICA, e proprio per questo fa le cose bene e realizza qualcosa che ha un significato estetico intrinseco e un valore che deriva da esso. Considerato in questo modo il bello (o, per converso, il brutto) non è una proprietà delle cose, degli oggetti, dei sistemi prodotti dalla tecnica, ma è l’espressione di una particolare relazione tra colui che crea e ciò che fa, che poi, come detto, in qualche modo influenza anche il rapporto tra chi usa e ciò che è usato o fruito.

Se dunque il coinvolgimento, quello originario dell’artista, dell’artigiano o del tecnico nel suo lavoro, e della partecipazione dell’utente del manufatto a questo coinvolgimento, cioè della sua capacità di immedesimarsi nell’oggetto o nel sistema prodotto, costituiscono la chiave per comprendere la qualità di un qualunque artefatto si comprende perché, per produrre qualcosa di bello, occorre infrangere quel’indifferenza dell’osservatore rispetto alla trasformazione che è propria della simmetria, e, in virtù del trasferimento analogico operato, è tipica anche della perfezione. Potremmo usare, per esprimere la rottura di questa indifferenza, il verbo “tenerci”, inteso nel senso d’identificazione con quello che si fa: e per cogliere la specificità del rapporto tra il prodotto, qualunque cosa esso sia, e il suo artefice o fruitore potremmo riferirci con efficacia all’espressione heideggeriana di “prendersi cura”.

Tenerci e prendersi cura sono il risultato della rottura e del superamento dell’indifferenza, insita nei concetti di simmetria e di perfezione, che vanno dunque infranti se si vuole realizzare qualcosa di interessante, valido ed efficace. Allora il fatto di affidare la gestione della cosa pubblica a scienziati e ricercatori che, per attitudine e abitudine professionali, sono abituati ad attenersi al principio della rigida separazione tra osservatore ed osservato, in modo da rendere minima e possibilmente azzerare del tutto la loro incidenza sulla dinamica dell’evoluzione dell’oggetto di studio, fa prevalere anche nella politica quella pratica di distacco e di indifferenza dalla quale non può che scaturire un crescente deficit di quel coinvolgimento, di quel prendersi cura in cui, secondo Pirsig, risiede la bellezza e l’efficacia di ciò che si fa e si produce. Ne consegue il paradosso di cui parlavo all’inizio: troppa perfezione, oltre a un cambiamento che non genera cambiamento alcuno, produce l’atarassia, la libertà dalle passioni e dalle perturbazioni e quindi un’asettica indifferenza nei confronti delle cose della vita.

Se le cose stanno così dateci, per favore, politici che non siano, e soprattutto non si sentano, i primi della classe, che siano meno perfettini, meno sicuri di interpretare con il massimo rigore e la maggior competenza possibile la loro missione di intellettuali prestati alla gestione della cosa pubblica, ma risultino più sensibili ed empatici, più capaci di immedesimarsi nelle sorti di coloro la cui vita dipende dalle loro scelte e decisioni e di prendersi cura del loro destino.

One Comment

  1. Michele

    Straodinario Silvano : maestro , anche, di ironia

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