A porte chiuse [di M. Tiziana Putzolu]

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Quando arriva nel piazzale polveroso ha chiara al convinzione che, alla sua età, non ha più voglia di fare quello che non le piace fare. Entrare in carcere non era contemplata fra le cose che le sarebbe piaciuto fare. Neppure per lavoro. Quell’edificio grande e maestoso. Un’istituzione. Oscuro e misterioso. Dice senza dire guarda che se si sbaglia io sono qua. Attenti. E cose simili.

Non ha mai pensato a chissà come è fatto un carcere dentro. L’argomento non è mai stato per lei interessante. Ma ora è lì. E, come per ingoiare una amara medicina, deve entrarci. Sì, bisogna farsi coraggio ed entrare. Se lo era detto mentre era in viaggio. Parcheggia con molta calma. Qui andrà bene? Forse sì. Ci sono altre auto. Giorno di visite. Lascia in auto il telefono. Dentro non si può portare nulla. Si guarda intorno. Qualche auto dei Carabinieri ed un cellulare della Polizia vicino all’ingresso. Un cellulare vero, non un telefono. L’aria è ferma. Nonostante la posizione. Che avrebbe suggerito forti e freddi venti invernali dal nord. Più sotto, la piana e la campagna. La città vicina. Una giovane donna con due bambini la colpiscono. Vestiti a festa. Capelli con gelatina alla moda. Sono all’ingresso. Vocianti e quasi festanti. Seduti aspettano di entrare. Un uomo più anziano con loro. Molto meno festante. Occhi bassi e scuro in viso. Il padre di qualche detenuto. La famiglia di qualche detenuto.

Due poliziotti escono dalla porta d’ingresso. Poi un uomo. Cammina lento. Ben vestito e con aria anche distinta. Ha scarpe buone e manette ai polsi. Lo sguardo basso. Dietro di lui altri due poliziotti. Una umiliante catena li unisce. Si chiede perché si trovi là dentro. Lo stomaco le si contorce. Si stringe il colletto del cappotto sul collo con la mano destra. Deve entrare. Ho un appuntamento con il Direttore, dice alla guardia. Ah, sì. Mi dia i documenti e l’autorizzazione del giudice. Glieli porge da una fessura. Può entrare. Dice la guardia. E dopo due passaggi per stretti antri, è dentro il carcere. Sono in carcere, pensa. La sensazione non le piace.

Nel grande androne semicircolare l’aria è gelida. La voce rimbomba. Scale a destra e scale a sinistra. Lunghi anditi e porte di uffici. Le pareti decorate con dei disegni. Li hanno fatti i carcerati. Si esce in un cortile interno, dopo una pesante porta che qualcuno deve aver aperto automaticamente. Attraversano il cortile. Uomini vi stanno lavorando. Sono carcerati. La riunione con il Direttore corre veloce. Le regole per vedere le carcerate sono ferree. Massimo distacco. Nessuna domanda personale, dice il Direttore duro e affabile. Autorizza l’ingresso alle carcerate. Sì. Può andare a visitare i locali. Direttamente alle celle. L’accompagnerà un Secondino donna. Proprio alle celle? Sì, certo. Il cuore le graffia il petto.

Bisogna sentirselo tuonare nelle orecchie il rumore pesante delle chiavi che aprono la porta che conduce alle celle. Per capire cosa vuol dire carcere. Bisogna sentirla la voce stridula del Secondino donna che avvisa le detenute che qualcuno sta entrando. Il carcere è quello. E’ odore di disperazione. Di solitudine. Un catalogo di errori. Un catalogo di orrore. La zona delle celle è ad un piano superiore. La scala ripida. Ed ecco le celle. Quando le vede, ha ancora il respiro trattenuto. Per farsi coraggio. Dodici donne. Detenute in piccole cellette con la porta in ferro verniciata di verde. La parte inferiore in spessa lamiera e la parte superiore è una grata. Sì. Proprio una grata. Getta uno sguardo dentro. Letti a castello. Sono le undici del mattino e loro sono sdraiate a letto. Una ha i capelli grigi. Lunghi e spettinati. E’ molto anziana. Porta una camiciona bianca da cui spuntano gambette magre pallide.

Si è fatta coraggio. Saluta. Buongiorno! No, le dice il secondino donna. Non si può salutare. Deve cercare di ignorarle. Deve essere dura. Solo domande può fare. Qualcuna di loro si avvicina alla grata, invece. Ci si appoggia con il volto. Appende le braccia alla porta e cerca di darle la mano. Viviana stai dentro! Le dice il Secondino donna con voce acida. Ma mentre il Secondino donna si volta per mostrarle gli ambienti, lei le sfiora le dita con la mano. E’ ricambiata con un grazie con gli occhi.

C’è un locale dove si possono fare alcune attività. La lavatrice all’angolo del piccolo corridoio. Escono dalle celle un’ora la mattina per potersi fare un po’ di bucato. Gli sguardi spenti, le voci piatte, la depressione il loro male. A volte, dice il Secondino donna con la voce acida, non escono neppure quando è loro consentito. Sarà che quella è l’unica scelta che possono permettersi. Pensa. Non fare è la loro unica manifestazione di libertà.

Cosa avranno mai fatto queste donne? si chiede. Queste Viviane, Helene, nomi angelici e cognomi slavi, spagnoli, sudamericani e sardi. Non può saperlo. Piccoli spacci. Forse qualche omicidio. Quando la visita finisce le saluta. Apertamente. Al diavolo il secondino donna. Cosa mai potrà succedere se le saluta? Si chiede. A presto. Dice loro. Tornerò per iniziare le attività. Qualcuna le sorride. Riesce a carezzare la guancia di quella che è rimasta appoggiata alla grata per tutto il tempo.

Bisogna sentirlo il rumore delle chiavi pesanti che chiudono la porta pesante. Per capire cosa è il carcere. Ti sbattono sul cuore la porta dell’orrore. Quando esce dal carcere l’aria frizzante le ricompone i pensieri. Al bar Barbagia in cima alla salita prende un caffè. Libero. Il carcere è alle sue spalle. La porta è chiusa. Ora sa che il carcere dentro non si può raccontare. Neppure vivere.

Ps: le riflessioni sono riaffiorate dopo aver visto il bel film Tango Libre del regista Frédéric Fonteyne, 2012. Secondo il Ministero della Giustizia. Sezione Statistiche, al 31 agosto 2014 sono presenti nei 204 istituti penitenziari italiani che hanno una capienza regolamentare di 49.397 posti, 54.252 detenuti, dei quali 2.308 (4,2%) donne e 17.457 (35%) stranieri. In Sardegna i detenuti sono 1.919, di cui 512 (26%) stranieri e 31 (1,6%) donne.

 

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