Il paradosso delle élites sarde italianizzate [di Maurizio Onnis]

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Gli storici del colonialismo utilizzano il termine “europeizzazione” con un significato ben preciso: indica il processo di assimilazione culturale perseguito dagli europei, tra Ottocento e Novecento, nei confronti delle élites delle popolazioni sottomesse di Asia e Africa. Queste venivano formate alla lingua, ai valori, alla visione del mondo della potenza continentale: venivano, appunto, “europeizzate”. Il processo si svolse consapevolmente, da una parte e dall’altra, perché chi vi era coinvolto ne coglieva gl’indubbi vantaggi.

I colonizzatori potevano in questo modo allevare fior di amministratori, politici, militari indigeni pronti a collaborare con la potenza occupante e a facilitare per essa lo sfruttamento delle risorse umane e naturali locali. I colonizzati venivano ammessi, seppure dalla porta di servizio, al tavolo dei padroni e sperimentavano una condizione di privilegio rispetto alla gran massa del proprio stesso popolo, non certo trattato con i medesimi guanti bianchi. In tale quadro, le élites indigene erano le prime a considerare il colonialismo un fatto indiscutibile e inevitabile.

Il processo di europeizzazione ebbe tuttavia per i dominatori del Vecchio Continente un risvolto pericoloso e incontrollabile. A lungo andare, accorciare la distanza tra colonizzatori e gruppi dirigenti indigeni, spingerli a pensare come europei ad esempio in tema di libertà ed eguaglianza, educarli alle capacità indispensabili ad amministrare e sfruttare un territorio, produsse questo effetto: le élites locali intuirono che potevano governarsi da sole e cominciarono a considerare la presenza straniera un peso insopportabile.

Nacquero allora e crebbero movimenti nazionalisti che chiedevano un’autonomia sempre più larga per i propri popoli, fino a esigere l’indipendenza. Esemplare, a questo riguardo, fu la parabola del Partito del Congresso indiano, sorto nel 1885 come fiancheggiatore dei britannici nel controllo del subcontinente e divenuto nel giro di pochi decenni il principale protagonista della lotta per l’indipendenza da Londra. In altri termini, l’europeizzazione delle genti sottomesse portava in sé i germi della disgregazione del dominio coloniale, i germi della decolonizzazione.

Negli ultimi centocinquant’anni, i sardi sono stati pervicacemente “italianizzati”. Tanto italianizzati che moltissimi sardi si ritengono italiani “da sempre”. Certo, la capillarità dell’intervento dello Stato contemporaneo, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, ha portato all’italianizzazione di masse ben più consistenti di quelle africane o asiatiche europeizzate tra Ottocento e Novecento. Basta pensare all’opera della scuola: facendo leva sull’obbligatorietà dell’istruzione primaria e secondaria di primo grado, così come su programmi di studio focalizzati con decisione sull’Italia, ha letteralmente cancellato la lingua e la storia sarde dal percorso di crescita degli abitanti dell’isola. A maggior ragione, l’italianizzazione ha agito sulle élites locali.

Attraverso il governo regionale queste collaborano con Roma nel controllo della Sardegna, a scuola diffondono lingua e storia italiane, nei tribunali somministrano la legge scritta nel Codice civile del 1942, offrono i militari che innervano le forze armate statali. Tutto nella convinzione che quanto va bene per l’Italia va bene anche per la Sardegna e che la dipendenza dei sardi da un potere esterno all’isola sia inevitabile, forse necessario. È la replica su scala regionale del vecchio meccanismo di “europeizzazione” messo in opera, su scala continentale, dal colonialismo otto-novecentesco.

Esattamente come accaduto in passato ai popoli dominati di Africa e Asia, l’italianizzazione dei sardi non ha però cancellato dalle loro coscienze la consapevolezza di essere “diversi” dagli abitanti del continente. I sardi sono “altro”, per gran parte della loro storia, per lingua madre, per tradizioni, e di conseguenza sono “altro” anche per bisogni e interessi. I sardi avvertono tale alterità, di cui è manifestazione ingenua lo sventolare continuo della bandiera dei quattro mori, in ogni occasione pubblica, ufficiale o meno che sia.

È una consapevolezza diffusa persino nella stessa élite indigena, che per ragioni di convenienza sarebbe la meno portata a modificare l’esistente. Un esempio tangibile è venuto in questi giorni dalla Ras, a proposito delle serre fotovoltaiche di Narbolia, nella persona dell’assessore all’agricoltura Elisabetta Falchi. In comunicato, ha affermato che «l’unico fotovoltaico da sostenere nelle campagne è quello per i nostri agricoltori e pastori così da abbattere i costi energetici per le aziende e mettere la Sardegna al riparo da eventuali speculazioni».

Al contempo, ha difeso con motivazioni amministrative e contabili l’azione della Regione a favore dell’impianto di Narbolia e contro Tar, comitati e Adiconsum, in un gioco che vede vincenti solo le multinazionali. Emerge qui in completezza il paradosso delle élites sarde italianizzate. Educate all’autogoverno, cresciute in epoca di espansione dei diritti individuali e collettivi, consce dell’importanza del volere e dell’autodeterminazione popolare, vedono ormai il contrasto patente tra gli interessi della propria comunità e i vincoli esterni. Per il momento ancora si ritraggono e scelgono i secondi. Ma il limite è vicino. È vicino il momento in cui queste stesse élites intuiranno che possono e possiamo farcela da soli. Come l’europeizzazione, l’italianizzazione porta in sé i germi del proprio superamento.

 

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