La laurea al Sud non serve più [di Paolo Romano]

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Più di un Neet su due viene da regioni meridionali. Oltre 30 mila gli emigrati per studiare, il rischio della perdita del «capitale umano». Studiare nel Mezzogiorno non conviene e non fa trovare lavoro. Un senso di sfiducia che l’ultimo rapporto Svimez , presentato a fine ottobre a Roma, ha messo nero su bianco senza giri di parole: per i giovani «l’investimento più promettente è quello di abbandonare il Sud».

Stavolta il quadro a tinte fosche sullo stato dell’economia meridionale si concentra anche sui rischi di perdita del «capitale umano», determinati dai mancati interventi di sostegno al diritto allo studio e delle conseguenti agevolazioni per i giovani per tentare la ricerca di una occupazione. Lo Svimez fa specifico riferimento ai cosiddetti Neet (not in education, employment or training), la categoria anglosassone per descrivere la condizione di esclusione dei giovani, anche istruiti, dai processi produttivi.

Basti pensare che, stando agli ultimi dati Istat, nel 2013 in generale in Italia i Neet hanno raggiunto i 3,6 milioni, con un incremento di quasi 26 punti percentuale rispetto al 2008, anno convenzionalmente preso a riferimento come avvio della crisi economica. Di questo esercito di giovani inattivi oltre la metà (il 56,2%) sono donne, mentre complessivamente quasi 2 milioni (il 54,6%) abitano nelle regioni del Sud. Ma c’è di più: se negli anni passati la «generazione Neet» riguardava per lo più i livelli di scolarità più bassa, adesso i numeri rivelano che circa il 58% ricomprende diplomati e laureati.

Una generazione dispersa. Un’offerta di lavoro non utilizzata di dimensioni tali che, associandosi alla percezione di insicurezza per il proprio futuro, determina «forti rischi di dispersione dell’investimento che il Paese ha effettuato nella formazione dei giovani». In particolare, l’emorragia costante di immatricolazioni rifletterebbe, non solo il peggioramento delle condizioni economiche delle famiglie, ma la convinzione «dello scarso vantaggio, in termini di occupazione e di reddito, dell’investimento nella formazione più avanzata».

Si tratta di numeri, spiega il Rapporto, che ci allontanerebbero sempre di più dal quadro strategico per la cooperazione europea per il settore dell’istruzione (il cosiddetto ET 2020), nel quale si fissa come obiettivo, certo ambizioso, che l’82% dei giovani diplomati e laureati, tra i 20 e i 34 anni, trovino occupazione dopo non più di tre anni dal conseguimento del titolo. Dal 2007, quando ci attestavamo sotto di 16 punti rispetto agli indici europei, abbiamo peggiorato ulteriormente le performance: solo il 48,3% è riuscito a trovare lavoro, contro una media UE che è del 75,6% (la Spagna ci supera col suo 59,5%).

Cosa è successo per sprofondare così rispetto allo standard fissato? Il Rapporto punta il dito contro la «scarsa innovazione di un sistema economico poco posizionato sulla frontiera competitiva». Si sarebbe, in altre parole, determinato un curioso contrordine: dalla necessità di qualificarsi attraverso lo studio e la formazione per soddisfare le esigenze del mercato, alla realtà di doversi confrontare con una domanda di lavoro dove l’esperienza conta più della scolarità. Un vero controbalzo rispetto al trend in atto da decenni a livello globale, che ha portato ad una elevazione complessiva del livello di istruzione, a questo punto largamente inutilizzata.

L’allontanamento dell’Europa. Anche per effetto di ciò, oltre al denunciato allungamento del periodo di transizione tra scuola e lavoro, si assisterebbe a una brusca frenata nello scegliere l’istruzione terziaria dopo la scuola superiore. Tradotto in numeri solo il 51,7% al Sud e il 58,8 al Centro-Nord ha scelto di proseguire il percorso di studi negli atenei. Fatto sta che lo scorso anno i laureati in Italia si sono attestati al 22,4%, un valore di gran lunga inferiore tra i paesi della UE (la media è del 36,8%).

Tra le responsabilità segnalate dalla Svimez c’è il sistema di finanziamento delle università che, già sottoposto a una forte riduzione delle risorse, «sta determinando una vera e propria penalizzazione delle università meridionali». In particolare, «il nuovo e crescente meccanismo di premialità, attribuito annualmente sulla base di criteri ministeriali discutibili, ha determinato, in soli tre anni, uno spostamento di circa 160 milioni di euro dalle università del Sud a quelle del Centro-Nord».

Con previsioni ancora più cupe per i prossimi anni: si parla di ulteriori 100 milioni di euro all’anno sottratti al sistema meridionale, che darebbero il colpo letale al tentativo di riallinearsi agli standard internazionali. Un circolo vizioso che, peraltro, non favorisce l’arresto dell’emorragia migratoria degli studenti dal Sud al Nord e che è destinata a «crescere all’incredibile ritmo di 30.000 unità all’anno»; una perdita di «capitale umano» che preoccupa gli analisti del Centro studi per l’inevitabile ridimensionamento del sistema universitario meridionale e che favorirebbe il processo in atto di downsizing e desertificazione di un’ampia regione del Paese.

*Corriere della sera 21 novembre 2014

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