Spostamenti progressivi del linguaggio [di Nicolò Migheli]

diffamazione

Capita che una fresca parlamentare europea in campagna elettorale incentri il suo essere in politica sulle frequentazioni dall’estetista. Lo fa distinguendosi dalla generazione delle donne che l’hanno preceduta, che secondo lei, non avrebbero i giusti canoni estetici per poter competere. Le risponde un docente dell’Università di Cagliari con una sineddoche genitale che suscita reazioni forti in campo femminile e non solo.

Il professore si scusa, ma il Rettore di quella Università lo deferisce al Comitato etico. Se quello stesso articolo fosse stato scritto con altre parole non avrebbe suscitato le stesse reazioni. Perché non è stato il contenuto a scandalizzare quanto l’uso di quei termini considerati sessisti. In principio furono Sgarbi e Ferrara a dare dignità pubblica ad un linguaggio che prima veniva definito da caserma. Un épater le bourgeois in una società dove non c’è più nulla che dà scandalo, dove la borghesia superstite si nutre di linguaggio povero ed icastico, dove la figura retorica dell’invettiva si trasfigura in insulto.

Uno slittamento del linguaggio che finisce con l’essere il termometro di una perdita di senso generalizzata. Una reazione di impotenza ad una crisi che sta distruggendo ruoli, idea di se stessi e si sta sempre di più trasformando in uno sfascio delle relazioni sociali. È avvenuto che vent’anni di dominio della destra abbiano finito per colonizzare parole e pensieri anche di chi lo combatteva aspramente. Anche a sinistra è in corso un rifiuto del linguaggio politicamente corretto accusato di essere l’ultima versione dell’ipocrisia. In questo dimentichi che quelle forme di definizione dell’alterità nascono negli ambienti liberal americani; ultima difesa dalle discriminazioni che le parole si portano dietro.

Nelle società complesse come le nostre – ma anche le altre che ci hanno preceduto non erano diverse- se si vuole mantenere delle relazioni accettabili, si deve per forza ricorrere ad un minimo di cautela nelle parole. La si chiami pure ipocrisia, ma ciascuno di noi, nei confronti quotidiani con gli altri, non esprime sempre tutto quel che pensa. Ancor di più per noi sardi che veniamo da un ambiente culturale dove la parola è sempre stata considerata definitiva, dove le pedagogie familiari erano improntate ad un uso cauto delle definizioni dell’altro. Una educazione al senso delle cose, una pratica che salvava rapporti sociali e non di rado la vita.

Questa contemporaneità televisiva prima e 2.0 poi, sta distruggendo non solo un’abitudine, ma un modo di essere dei sardi, ci sta italianizzando nel modo peggiore, facendoci credere che sia emancipazione ed invece è solo un’ulteriore negazione di ciò che eravamo e siamo. Questa volta, come altre, non abbiamo bisogno di nemici esterni a cui attribuire responsabilità. È una modernità alla quale abbiamo ceduto quasi fosse una liberazione, come adolescenti che provano il gusto della mala parola per affermare se stessi.

Si può continuare così? Certo che si può, a patto però poi di non lamentarsi se l’ambiente che abbiamo contribuito a creare diventa ogni giorno più incivile ed invivibile.

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