28 aprile: la Sardegna governerà la transizione o la dipendenza? [di Adriano Bomboi]

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Mentre la Giunta regionale discute di rimpasto, un’alta percentuale di forza-lavoro dell’isola rimane ostaggio di un fallimentare modello di sviluppo, ancorato a logiche fuori mercato. E’ la tragedia che colpisce numerose famiglie nei settori dell’industria pesante, dell’energia, ed in comparti, come il tessile, incapaci di rispondere alle sfide della competitività.

Preda di una politica che rimanda all’infinito le soluzioni strutturali al fine di intraprendere quella più comoda ed elettoralmente remunerativa dell’assistenza: l’isola moltiplica la cassa integrazione, gli ammortizzatori sociali, le proroghe di chiusura degli stabilimenti e i ridimensionamenti degli organici. In parallelo si inseguono improbabili e temporanei investitori stranieri (od enti parastatali), più o meno agevolati e costantemente orientati ad inquinare e depauperare il nostro valore aggiunto.

Tutto questo accade mentre si distribuiscono piatti d’ostriche, spacciati per ossigeno, a servizi pubblici i cui costi medi superano quelli degli analoghi servizi forniti dai privati. L’obiettivo parrebbe quello di salvare le sorti di cadaveri sottoposti ad accanimento terapeutico, o forse dello stesso Popolo Sardo.

Purtroppo la produzione di tali aziende si orienta verso un solo prodotto: gli stipendi pagati dalla collettività. In altri termini, la fallacia del keynesismo portato alle sue estreme conseguenze rispecchia il potere politico e sindacale che avviluppa il territorio, come un cane che si morde la coda. E infatti Lazzaro non resuscita, si decompone. La fede nel tirare a campare si trasforma nell’isteria di massa che spinge tutti verso il baratro.

La giustificazione che perpetua questo suicidio collettivo è l’alibi che ha sempre consentito alla nostra politica di dissanguare lentamente la Sardegna. Si tengono aziende in perdita perché i tempi per convertire l’economia locale sarebbero lunghi, e non si potrebbe lasciare sul lastrico migliaia di persone.

Che fare? La banalità non esclude la semplicità: riformare lo Statuto autonomo affinché gli slogan sulla riduzione delle tasse, della burocrazia, e per il rilancio del patrimonio storico, linguistico e culturale dell’isola, si trasformino in fatti concreti, stimolando veri investimenti. Eppure il dibattito sulla riforma dell’Autonomia speciale non decolla, e questo certifica una chiara volontà, da parte della nostra classe politica, di governare la dipendenza senza gettare le basi della transizione verso un modello economico maggiormente virtuoso (e magari indipendentista).

Da quasi vent’anni a questa parte il tema delle grandi riforme ha assunto i connotati del mito di Loch Ness: un mostro marino sporadicamente emerso dalle tumultuose acque della politica, inabissatosi sempre troppo presto per poterne provare la sua reale consistenza. Ma non è la paura di un mostro immaginario a frenare le maggioranze che si susseguono in Regione, quanto il timore che una seria conquista della sovranità popolare porterebbe a quella responsabilità capace di causare la perdita dei privilegi, delle posizioni e delle rendite di potere date ormai per acquisite.

Ecco perché tutte le attenzioni dei governi regionali vengono convogliate nell’ordinaria amministrazione, e per l’addomesticamento dell’emergenza, trasformandosi in conservazione. Un problema che in passato non risparmiò neppure il sardismo.

All’indipendentismo sardo non rimangono che due strumenti: il primo potrebbe essere la promozione di un serio referendum autogestito per l’indipendenza, ma di difficile attuazione (la Sardegna non possiede il potere economico di una potenza manifatturiera come il Veneto, e men che meno della Catalogna, con tutto ciò che comporta nella possibilità di trainare consensi). L’ago sulla bilancia della conservazione sociale pende a nostro sfavore, nonostante tematiche nazionalistiche, come quella linguistica, maggiormente sentita rispetto alla situazione lagunare. Il secondo potrebbe essere proprio l’approccio riformistico, impervio e non garantito ma da tentare, per via della necessità di liberare quanti più sardi possibile dalla morsa della dipendenza economica, culturale e politica a cui sono piegati.

Ecco perché il 28 aprile, Die de sa Sardigna, può essere occasione per festeggiare, ma soprattutto per riflettere sulla memoria storica di un uomo, Giovanni Maria Angioy, la cui tensione ideale si collocava nell’assoluta volontà di liberare l’economia riformando le rigide istituzioni dell’isola.

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