Libera [di Francesca Gallus]

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Il racconto fa parte di Piccole storie recluse racconti scritti da donne e letti durante il Seminario Michel Foucault: Istituzioni totali e comunità ospitanti all’interno dell’iniziativa Il primo miglio organizzata da FAI Sardegna per la riapertura dell’ex Carcere di Buoncammino il 2 e 3 maggio.

Ho avuto questo bambino; non brutto, diciamolo.
Bello, da guardare, con quegli occhi grandi, e le manine grassocce.
Però non si regge. Cioè, per dire, già quei dolori, che non sembra nemmeno vero che chissà quante prima di me li abbiano passati.
Tipo anche mia madre, se ci penso.
Poi questa cosa di svegliarsi.
E mangiarmi.
Dico, se sono stanca, se sono triste, se sono girata di coglioni, non ce n’è, quello grida grida grida grida fino a che resta senza fiato e tocca prenderlo su e attaccarselo al seno, ed è come se non fossi più nemmeno una persona, ma tipo un frigorifero, o che ne so, un distributore automatico, e non mi devi nemmeno metter dentro i soldini; guarda che figata.
Prendi la mattina, ti svegli e nemmeno ti riconosci. Programmi per la giornata: zero.
Te li fa lui i programmi.
Ore 10 mangiare, ore 10,30 cagare, ore 14 mangiare, ore 14,30 cagare.
Grande fantasia, eh?
Cioè che me ne frega se è bellino da guardare quando dorme. E che poi per fare bellino lui, io come ne esco?
Una volta che è pulito, vestito, infagottato e sistemato nella carrozzina per la passeggiata, guarda me. Unghie graffiate, mani screpolate, capelli da paura.
Che la piastra me la sono bella che dimenticata, manicure zero e sono anche un po’ fuori forma, e con tutto quel farmi succhiare mi pare di essere sempre sporca e appiccicosa.
E la passeggiata, poi.
Tutti i giorni ‘sta passeggiata, ma sono io che passeggio, eh, quello niente, non sa nemmeno camminare, che passeggiata sarà.
Veder i negozi, misurare qualcosa, non se ne parla. Si passeggia nel giardinetto, avanti, indietro e già si è fatta l’ora di tornare prima che strilli come una sirena dei pompieri.
Pronto il mangiare!
Pronto il cambio!
Pronta la culla!
Metti che voglio fare una telefonata, metti che c’è un programma che voglio vedere.
Nossignore, viene sempre prima lui.
Dio del cielo, che galera.
Sì, sì, la galera sarebbe questa, ma vuoi mettere?
Anche se non posso uscire da qui, perché dicono che le altre mi metterebbero le mani addosso, che ce l’hanno a morte con quelle come me, ma che mi frega.
Almeno non sono costretta a fare la passeggiata, ah – ah.
Almeno se sento piangere – e non è che non si sentano i pianti, la notte, specialmente – non è affar mio.
La tv ce l’ho, e la guardo quanto mi pare e piace; il telefono ce l’ho e lo uso quanto e quando mi va.
Maria se ne trova, quelle mi schiferanno, ma per cliente mi vogliono uguale; per mangiare non si sta male, e anche mia madre mi porta delle cose, il caffè me lo faccio qui, si sparge un buon profumino.
Poi vabbé, non vedo quasi nessuno, ma ho le chat e questo canale di video a cui si stanno loggando tutti; guarda, mi diverto con questa cosa.
Alla fine il tempo mi passa abbastanza in fretta, faccio come mi gira, mica sarà un problema che si vede solo un pezzo di cielo.
Alla fine, guarda, sono libera.

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