L’«Eureka!» di Ignazio Visco [di Silvano Tagliagambe]

Teamwork of businesspeople

Chissà se adesso che lo dice anche Ignazio Visco chi ci governa comincerà ad aprire gli occhi.
Sabato scorso nel mio intervento di apertura della Tavola Rotonda Il riscatto dei “guardati” senza sguardo, tenutasi all’interno del Seminario organizzato dal FAI Sardegna per la visita guidata dell’ex carcere di Buocammino, dicevo, testualmente: “il potere, da coercizione dell’uomo sull’uomo si può trasformare in servizio dell’uomo per l’uomo solo se diventa, appunto, capacità di operare sorretta da competenza, nutrita da un complesso di abilità che vanno non raccontate e rivendicate, ma esibite concretamente facendo, impegnandosi ogni giorno e dimostrando di saper affrontare e risolvere i problemi della cui soluzione siamo stati incaricati”.

E concludevo le mie considerazioni, pubblicate l’altro ieri in questo stesso sito con il titolo Il tarlo di Foucault, esprimendo la speranza che si stia manifestando, nell’opinione pubblica, “il bisogno profondo e diffuso di un potere che non sorvegli, come si faceva in questo luogo di pena, e non opprima, ma sia finalmente espressione di conoscenze, di competenze e di capacità di decidere e di ben operare, poste al servizio del cittadino e del benessere della Sardegna”.

Ebbene, per una felice coincidenza, intervenendo in modo del tutto inatteso, segno di un’urgenza che non poteva essere differita, alla Luiss in occasione della presentazione del libro di Riccardo Varaldo, “La nuova partita dell’innovazione”, il Governatore della Banca d’Italia ha puntato il dito contro la piaga principale che affligge l’Italia: “il ritardo sulle nuove tecnologie, l’incapacità di comprendere l’innovazione e di investire in quelli che la capiscono”. “L’innovazione”, ha detto, “crea nuovi lavori: ma se non creiamo le condizioni rischiamo una disoccupazione di massa in un tempo di transizione che non sarà affatto breve. È un dato di fatto che la popolazione italiana è altamente in ritardo nel cogliere i vantaggi delle nuove tecnologie”.

Serve “capacità di usare competenze diverse”, e quindi il contrario di uno specialismo spinto all’eccesso e ormai senza senso, serve un investimento sul capitale umano che in Italia non è avvenuto. E qui Visco ha puntato il dito contro l’interpretazione nostrana della flessibilità del lavoro: “Alle imprese non è convenuto investire su quelli che più sanno: uno dei maggiori disincentivi a investire deriva dal modo in cui abbiamo reso flessibile il mondo del lavoro: per una piccola impresa che non aveva possibilità di fare investimenti è convenuto assumere con contratti part-time e precari giovani pagati poco per fare le stesse cose che facevano gli anziani”.

Abbiamo reso flessibile e precario il mondo del lavoro, con gli effetti indesiderati sottolineati, e non abbiamo reso flessibile, come invece sarebbe stato necessario e urgente fare, gli stili di pensiero e la conoscenza. In un intervento dal titolo “Senza la linea dell’arco il ponte della «Buona scuola» non sta in piedi”, pubblicato il 2 novembre dello scorso anno nel sito di Vito Biolchini, scrivevo: “Il piano “La Buona Scuolanon parla della linea dell’arco, della struttura, del disegno complessivo, della visione della scuola, della sua funzione nella società contemporanea, di ciò che essa deve fare per formare la testa del citatissimo aforisma di Montaigne ‘È meglio una testa ben fatta che una testa piena’, ripreso da Morin”. In particolare sottolineavo che “per far fronte ai bisogni del mondo contemporaneo questa testa ben fatta dovrà essere capace di esprimere uno stile di pensiero: fluido; flessibile; capace di passare dal pensare in modo verticale al pensare in modo orizzontale; caratterizzato da integrazione e visione”.

Vale la pena di ripensare a queste lacune nel momento in cui, sotto la spinta delle proteste del mondo della scuola, dei docenti, degli studenti e delle loro famiglie, il disegno di legge governativo di riforma del nostro sistema d’istruzione viene sottoposto a un’analisi critica che ne evidenzia le insufficienze e le debolezze. La prima, la più vistosa, sta proprio nella mancanza di un qualsivoglia progetto capace di interpretare le esigenze non solo del mondo di oggi, ma anche del domani in cui i giovani che oggi frequentano le scuole secondarie e, soprattutto, quelle primarie usciranno dalle aule per entrare attivamente nella società e nel mondo del lavoro.

È allora legittimo pensare che non sia affatto un caso che Ignazio Visco sia voluto intervenire su questi temi a sorpresa proprio oggi, proprio nel pieno di queste polemiche su “La Buona Scuola”, dicendo, senza mezzi termini, che “la paura del cambiamento, la paura del futuro» vince su tutto e rischia di essere paralizzante e penalizzante. E così non ci rendiamo conto che “anche buona parte dei lavori dell’industria manifatturiera italiana scompariranno nei prossimi 10-20 anni” e non ci attrezziamo, né sotto il profilo economico, né sotto quello culturale, scientifico e tecnico, per riuscire a reggere l’onda d’urto di questo vistoso cambiamento che è ormai alle porte. “Se anche si creasse un ambiente favorevole alle imprese e un cambiamento di mentalità – ha proseguito – ci troveremmo comunque con un forte ritardo culturale“.

Qui l’analisi del Governatore di Banca Italia si fa impietosa: egli ha infatti ricordato che “l’alfabetizzazione degli adulti italiani è molto bassa: il 70% degli italiani non comprende cio’ che legge o non sa come usare le informazioni scientifiche e tecnologiche che possiede. Siamo molto indietro“. Secondo Visco dunque “non è importante solo fare innovazione, quanto piuttosto saperla comprendere e cogliere“. E non c’è luogo migliore della scuola e dell’università dove dare avvio concretamente a questo processo di comprensione, in modo che le nuove generazioni siano preparate ad affrontare come si deve il loro futuro.

Chi doveva investire su se stesso – ha concluso amaramente Visco – ha pensato che non fosse conveniente farlo“. Che a prendere questo abbaglio, che rischia di essere fatale, sia stato e sia tuttora il mondo delle piccole e medie imprese è già molto grave: se a questo errore dei nostri imprenditori si somma anche quello dei politici, incapaci a loro volta di capire l’innovazione e di valorizzare coloro che la interpretano, sanno cos’è e sono in grado di farla, valendosi delle loro capacità e competenze, non c’è proprio speranza per il nostro paese.

 

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