La curatrice d’anime [di Giulia Clarkson]

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Il racconto fa parte di Piccole storie recluse racconti scritti da donne e letti durante il Seminario Michel Foucault: Istituzioni totali e comunità ospitanti all’interno dell’iniziativa Il primo miglio organizzata da FAI Sardegna per la riapertura dell’ex Carcere di Buoncammino il 2 e 3 maggio.

È il terzo giorno che compare, arrivata da chissà dove. Attraversa il muro e si ferma. Sta immobile. Accanto a una macchia d’umido simile a una primordiale Pangea.
Manco a dire che mi fissa con occhi stupidi, ché se ci sono, gli occhi, neanche li vedo. Ma è un’intrusa, che vuole? Se l’afferro me la metto in bocca e la mastico come una gomma americana. Poi la sputo dritta nel cestino.
Che venga a fare qui, non so. È l’unica che può entrare e uscire quando vuole, senza procedure. Sarà curiosa. Le avranno detto che siamo bestie anche noi.
Bestia sì, lo sono stata. Ma bestia in gabbia, proprio non mi capacito. Io che ammiravo le tigri bianche. Che poi, ho scoperto, non sono altro che le più sfigate: grossi felini albini a rischio di estinzione. E vabbe’, tanto a stare qui dentro mi estinguerò presto anch’io.
Una ci entra e diventa un pungiball, grazie a quel solito pezzetto di storia millesimale che ti sbattono in faccia per anni, senza possibilità di evoluzione. Come è stato, cosa è stato, a che ora, in quale frangente, con quali dinamiche? Si resta, presi a pugni dal passato. Esclusi dal tempo presente.
Dietro una porta chiusa, una finestra sbarrata, muri pieni di umido che fanno
freddo anche d’estate.
Un errore, lo chiamano. Una deviazione.
Ma no, non esiste l’errore. E la parola deviazione suona bene solo sui manuali. Non ha senso nel divenire concreto, quando l’urgenza ti acchiappa e ti fa affondare un coltello nel petto della persona che ti aveva uccisa mille volte con mille sguardi. Ma quello nessuno mai lo considera. Non i tribunali,
insomma. Né chi vede la tua foto sui giornali ed ha già emesso il verdetto. Magari gli strizza; quelli sì, se hai la fortuna di trovarne uno che si appassiona a te. Chiedono, si informano, cercano di tirare fuori la rabbia delle origini. La mia rabbia di oggi è per quando sono stata denudata, perquisita da mani
ricoperte di silicone e, subito dopo, sottratta all’aria.
È la forma passiva, ad essere insopportabile. Quel SONO STATA. Ma è proprio questo che accade: tu smetti di poter fare, una volta dentro. Smetti di persino di poter essere. Qualcun altro detiene i tuoi fili, costringendoti a imposizioni che sono materia da sottoumano. Questo è però solo l’utero della
rabbia nuova. Un olio di superficie che pesa, ma non si confonde. Di sotto, ondeggia la melma che c’è sempre stata: il groviglio di sensazioni che ti fa sentire inutile e inadeguata alla vita.

La lucertola è tornata per il quarto giorno. È salita sullo stesso punto. Mi osserva. Quanto è brutta, oltre che antipatica. Avevo una compagna di scuola, alle medie, con uno sguardo così simile e fesso. La chiamavamo Algida, come i gelati. Chi sei, Algida?, la schernivamo. Zitta Algida che ti sciogli a parlare di più. A volte si metteva a piangere. Non doveva essere così glaciale, dopo tutto.
Non avevo mai notato quanto fossero lunghe e aguzze le zampe delle lucertole, specie le posteriori. Dita da strega, che come i sauri conservano aspetti ancestrali: la pelle a squame; l’istintività feroce; la capacità di
dissolversi che avrei voluto avere io nel momento in cui ho sentito fiottare il sangue caldo sulle mani.
Guardala. Fissa sul muro, immobile. – Che vuoi, stronza? – le urlo. E siccome finge di non sentirmi, afferro una scarpa da terra e gliela lancio. Così impara e la smette di venire a scocciarmi.
La scarpa rimbalza, finisce a terra col rumore sordo della gomma. La bestiola fugge via, scompare non so dove. Il muro è finalmente vuoto.
Sul giornale, ripiegato sopra il tavolino, l’ombra di un movimento. Mi sollevo dal letto, per capire. Tre centimetri affilati e marroncini si dimenano sulla carta. Miserabili e infimi, vivono i loro ultimi istanti scodinzolando manco appartenessero a un cane felice. Un senso di disgusto mi fa tremare le
gambe, mi dà la nausea. La troppa fragilità di ciò che vive è insopportabile. Non riesco più a guardare quel pezzo di coda che non smette di muoversi. Quando ho mollato il coltello, dopo una fatica enorme, ricordo di aver pensato che distruggere un essere che vuole vivere è difficilissimo. Non ricordo quanto tempo sia passato prima che lui smettesse di respirare. Non ricordo cosa ho fatto nell’attesa, non ricordo se ho atteso. So che ero soddisfatta per avere, una volta, affermato il mio diritto a esistere.

Ecco, lo stesso impulso di allora che mi blocca la mente. Non comando le mani e i pensieri sono scomparsi dietro un muro bianco, invalicabile. Temo per me, quando ciò accade. Eppure non so resistere.
Afferro il pezzo di coda che si divincola e lo infilo in bocca. Non sentissi la sostanza viva dietro le labbra, negherei di averlo mai fatto. Peso il movimento sulla lingua, senza stringere i denti, fino a quando quei tre centimetri freddi e gratinati non guizzano rapidi e scompaiono giù per la gola. Ho ingoiato.
Sento uno sbraitare di guardie, fuori dalla cella. Mi hanno spiata, come sempre. Ma questa volta non mi interessa. In un singulto di incredulità, una vampata mi attraversa. Un calore luminoso mi pervade, un senso di pace mi rende la certezza della presenza e non importa il luogo, non importa il tempo.
Chiudo gli occhi. Non ho più alcun muro di fronte. Le porte sono spalancate, dalla Pangea d’umido si espande la luce e i raggi del sole arrivano dritti a scaldarmi la fronte. Mi pare di sentire la freschezza dell’aria, l’odore dell’erba, il cinguettio di un uccello. Se non avessi sempre negato di averne una, direi
che l’anima mia è libera di correre verso un’essenza nuova, pulsante e sacra. Scompare d’un tratto la passività che mi teneva relegata nella cella d’un carcere e scompare la dipendenza dall’impulso animale dei gesti fuori controllo.
Ecco, una certezza si adagia dentro di me portando la fiducia che la vita non mi aveva mai concesso. Al centro del petto sento il cuore, grande e potente. È lui che mi dice che ciò che ha davvero rilevanza è stare nel flusso della vita. Un pensiero che mi sostiene dai piedi e mi tiene dritta. Sì mi sento al mio
posto, all’interno del magico confine delle cose che permangono e di quelle
che finiscono.
“Preparati”, mi dicono da fuori. “Ti apriamo la cella, stai per tornare libera. Che c’è, non hai più fretta? Hai paura? Molti hanno paura di rientrare nel mondo, dopo essere stati qui a lungo.” Sorrido delle loro supposizioni. E li compatisco un po’. Io vado, loro restano.
Non possono capire. Non sanno che la mia lucertola è tornata anche il giorno dopo e tutti i successivi, fino ad oggi. Si è fermata sempre sulla stessa chiazza sul muro. Ma la coda è ricresciuta più bella, di un verde intenso e fresco come non era prima.
Non sanno che ormai mi addormento e mi risveglio percependo una rotonda morbidezza, intorno al cuore. Quando un accenno di paura si avvicina, o quando è la rabbia a tentare di fare capolino, torno lì, ad ascoltare il ritmo del respiro, sacro come la vita. Cerco la luce che ho imparato a scorgere dentro
di me, per essere nutrita.
Oggi esco, secondo loro. Sgravata dalla mia colpa, perché ho pagato. Ma io e Lucertola sappiamo. Che dal giorno in cui mi ha donato la parte di sé capace di rigenerarsi, la libertà ha iniziato a fluire mio nel sangue.

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