Il parto della Regina [di Francesca Gallus]

Venus Verticordia

La regina siede tutta sola alla finestra. Guarda fuori e col dito bianco segue i contorni del piombo che unisce i piccoli vetri colorati.  Un raggio rosso rubino, dal suo anello di sposa, accende di quando in quando la monotonia della luce invernale. La panca di marmo su cui riposa, al lato delle colonnine ritorte che compongono la grande bifora, è imbottita di cuscini di velluto; il gradino su cui poggiano i suoi piedi, calzati in pantofoline alla turca, è coperto di tappeti.

Un fuoco vivace, nel grande camino di pietra, riscalda la sala. Indossa le vesti sontuose del suo rango, intessute d’oro e di perle, il pizzo del colletto inamidato n  le arrossa il collo delicato. I capelli biondi, schiariti col succo di limone, sono legati in grosse trecce attorno al viso. Più di un’ora hanno lavorato, questa mattina, le sue ancelle per agghindarla come se il miglior pittore del regno dovesse disegnarne il ritratto. Gli occhi neri, ombreggiati da folte ciglia, sono seri e distanti, sulle guance rotonde dei suoi quindici anni scivola una lacrima. La regina sogna e ricorda e la nostalgia la consuma.

Il re è altrove, in guerra forse, o in qualche paese lontano, con un’ambasceria, né si sa quando sarà di ritorno. L’assenza, almeno, la conforta. Gli usi della corte straniera non prevedono che appaia in pubblico senza il consorte; può stare in solitudine. Intorno a lei si sussurrano parole della sua dolce lingua natale. Da quando è andata sposa al vecchio re di questa terra selvaggia e distante, dal giorno che il suo corteo è entrato nel castello di marmo, fra due ali di bifolchi festanti, non ha mai smesso di rimpiangere la sua perduta giovinezza.

L’aspro paesaggio che scorge ai piedi della rocca si trasforma sotto il suo sguardo in colline morbide e dorate, i cortili spogli e austeri diventano giardini pensili, profumati dal gelsomino, nelle sillabe dure della lingua ancora sconosciuta echeggia per lei il canto dell’usignolo. Quando guarda le rozze dame di corte in processione vede i colori vivaci e le vesti leggere di altre damigelle, negli scialbi occhi chiari dei paggi ignoranti cerca il calore dello sguardo di giada del suo Reynaldo.

Finito il tempo dei giochi, dei trastulli d’amore, delle note del cembalo; perdute le braccia morbide della nutrice, i suoi baci, le sue carezze sui capelli sciolti. Non più amiche devote, risate, canzoni.

I suoi studi di filosofia e matematica, i suoi esercizi di poesia non possono essere proseguiti in questo paese d’incolti; i preti diffondono leggende e superstizioni, è proibito l’ingresso di libri pericolosi. La forza virile del suo anziano sire, la legge della dinastia, l’hanno strappata a ciò che conosceva ed hanno cambiato il sole dell’estate nell’umido inverno che le penetra nel cuore. In questo anno di solitudine e malinconie, in questi mesi d’attesa e cambiamento la regina ha avuto paura. Paura della morte e paura della vita.

Nelle sue nuove forme, nella fatica, nell’affanno, ha riconosciuto il presagio dei giorni a venire, ha colto l’annuncio del declino, dell’apatia dei vecchi. Nei piccoli dolori, nel sangue, nei fermenti del suo ventre, ha sentito la ferocia del nuovo, la prepotenza dell’infanzia. Non ha potuto sottrarsi al suo dovere di regina, ma trema per il disgusto di ciò che le sta per accadere, per il rifiuto che il suo corpo di bambina oppone al destino di madre. La regina non crede di poter generare un figlio, non vuole sapere come accadrà, non vuole avere nessuno da amare in questa terra d’esilio.

Ormai manca poco, forse qualche giorno. Non si è potuto far venire nessuno, né la nutrice né sua madre o una delle sue sorelle, perché il tempo inclemente ha sconsigliato i messi di mettersi in viaggio a portare la buona novella. Per i doni ed il conforto bisognerà aspettare il disgelo. La regina guarda fuori ma ora non vede niente, solo ascolta, senza panico, i dolori che le salgono dal grembo. Sente d’improvviso che tutto il suo corpo l’è estraneo, sente il dolore montare e avvolgerla e travolgerla come la marea. Sente dolerle la pelle, i capelli, le unghie. Si piega in due e geme piano. E silenziosamente, dal fondo della sala, dall’ombra, le si avvicinano delle donne che non aveva saputo fossero lì. Sono le ostetriche, le balie e le sue ancelle fedeli.

Lei si sente già come altrove, il dolore è dovunque mentre la sollevano; reggendola per le braccia la mettono in piedi, e mentre mani sapienti la spogliano dai manti e dalle vesti è spinta verso il grande baldacchino presso il quale sono pronte bende di lino, fasce e recipienti d’acqua. La regina lascia fare, la stendono sul letto, le asciugano la fronte, le bagnano le labbra con un panno inumidito. Intorno a lei bisbigli, calore, mani esperte, dentro di lei la vita, che chiede di passare.

Ma il corpo fragile della regina non regge all’impegno del parto: improvvisamente il suo pallore diventa di cera, i sensi si confondono, la testa si abbandona. E come ad esaudire la sua preghiera muta dal ventre, aperto e lacerato, un frullo d’ali libera la prima rondine di primavera. Il volo accende la sala di una luce calda e tenera, il grembo si svuota delle nuvole e del vento d’aprile.

E la regina si alza, abbandona il suo corpo squartato, leggera, fresca, raccoglie i giochi, il cerchio, e scende le scale, per incontrare, al sole del giardino, il suo Reynaldo.

Lascia un commento