E se la vera crisi europea fosse quella tedesca? [di Pierfranco Pellizzetti]

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MicroMega.it 20 luglio 2015. Capire i processi mentali per cui i sottomessi accettano di essere tali nei confronti dei prevaricatori, attiene in misura eminente alla psicologia sociale; non diversamente dalla descrizione delle arene competitive e dalla “lettura” dello score nelle partite politiche giocate. In cui vincitori e vinti vengono designati sulla base di percezioni influenzate dai modelli vigenti di rappresentazione. Come ebbe a dire una volta il generale stelle-e-strisce David H. Petraeus, grande esperto di conflitti mediatizzati, «quello che i decisori politici pensano sia accaduto in ogni caso specifico è ciò che conta, più di quanto sia effettivamente accaduto».

Una regola che risulta particolarmente attinente per decostruire i recenti accadimenti che hanno messo in subbuglio l’intera costruzione europea; conclusi con la conclamata vittoria dell’ordine liberista e controriformista incarnato dalla magna Germania, sulle pretese velleitariamente sovversive avanzate dalla piccola Grecia. More solito, Golia che nella realtà prende a pedate il presuntoso ragazzetto Davide.

Ma è davvero questo quanto successo tra Atene, Bruxelles e Berlino, o non piuttosto la vicenda biblica cui fare riferimento è un’altra; quella di Sansone sepolto insieme a tutti gli altri – filistei e non – sotto le macerie del tempio (nel nostro caso dedicato al culto del dio-denaro) che lui stesso ha fatto crollare?

In altre parole, l’ottica ribaltata di una crisi non greca, bensì tedesca; che si propaga all’intero continente, apprestando le condizioni per una stagnazione che potrebbe rivelarsi secolare. Sotto la sferza dell’austerità che si pretende “espansiva”, quando in effetti suona a sinonimo di “espiazione”.

D’altronde, finché l’ortodossia economica sarà quella di sensali, intermediari e cambiavalute, di analisti/economisti maniacalmente concentrati sugli aspetti meramente simbolici delle astrattezze finanziarie, non sarà possibile rettificare i piani sequenza di questo film-propaganda. Magari firmato Leni Riefenstahl, la celebre documentarista tedesca degli anni Trenta.

Un punto fermo pavloviano che – in sostanza – ritroviamo nelle analisi anche più critiche del tracotante superomismo tedesco; circoscritte anch’esse alla dimensione del debito. Seppure da rimettersi al debitore secondo buonismo mediterraneo di stampo cattolico, in antitesi all’equiparazione concettuale luterana – come già si è ripetuto fino allo sfinimento – tra debito e colpa. Questo perché, nell’attuale fase storica, la sedicente “triste scienza” versione mainstream ha subito un processo di astrattizzazione, nella misura in cui pretendeva di matematizzare le proprie asserzioni; quelle narrazioni letterarie con risibile presunzione di legge oggettiva.

Difatti la dimensione materiale risulta essere il grande assente nelle ricostruzioni contrapposte, perdurando l’oblio del principio – forse banale, di certo sostanziale alla prova dei fatti – che l’agire economico coronato da successo si riduce all’offrire beni/servizi che qualcuno giudica appetibili e per cui è disposto a pagare il prezzo richiesto. Prodotti, non algoritmi (come insegnano le recenti biografie miliardarie di Jobs o Gates).

Dimenticanza rilevabile già nell’apparente “tampone” concesso giorni fa al governo greco in deliquio: dei sette miliardi di euro stanziati, quattro di questi vanno resi alla BCE e altri due al Fondo Monetario. Come si è riscontrato in passato nei prestiti gravati di interessi; e come si riscontrerà in quelli prossimi futuri: buchi contabili per riempire precedenti buchi contabili. Senza la minima consapevolezza che – così facendo – si avvia una spirale perversa; nella corsa ininterrotta di buco in buco.

Senza quello stop che sarebbe rappresentato dalla creazione di ricchezza sorgiva attraverso l’investimento, con cui riprodurre il capitale necessario per saldare effettivamente il debito. Materia da sociologi di territorio e impresa, verrebbe da dire. Magari tipi alla Albert Otto Hirschman, il quale si chiedeva già negli anni Quaranta quali fossero le strategie concrete per determinare l’uscita dal sottoviluppo. Magari recandosi personalmente sul campo nel distretto colombiano di Cali.

Il quale Hirschman – chiamato al capezzale greco, in pieno collasso da debiti – oggi si chiederebbe come accompagnare cicli virtuosi di crescita partendo dagli assets disponibili e dalle relative vocazioni d’area. Nel caso – e ad esempio – l’imprenditorializzazione del turismo, ovvero l’industrializzazione dell’agricoltura (nel settore oleario?), magari le possibili sinergie manifatturiere ipotizzabili con l’economia del mare. Non buchi riempiti con altri buchi.

Appunto, se si ragionasse in termini di sviluppo/progresso. Il tema dimenticato e/o rimosso a Bruxelles, mentre l’Unione andava configurandosi sempre di più come un sistema-Europa suddiviso in centro mitteleuropeo (l’area dominante, raccolta attorno all’asse Germania), semi-periferia (la pur nostalgicamente pretenziosa Francia, tanto di Sarkozy come di Hollande) e la corona periferica (i Paesi mediterranei e quelli dell’Est già sovietico). Una divisione attorno a differenti livelli di capitalizzazione derivanti dalla capacità o meno di calamitare ricchezza.

Quanto sempre meno in grado di crearla, la ricchezza. Almeno da quindici anni.
Ricordate il 2000, l’anno della carta denominata “strategia di Lisbona” e sottoscritta da tutti i partner europei? Si trattava dell’impegno finalizzato a “fare dell’economia europea la più competitiva e dinamica del mondo, fondandola sulla conoscenza”. Con il retropensiero di arrivare così alla piena occupazione. Poi sono arrivate le direttive Bolkenstein o De Palacio e i loro dumping a massacrare il fattore umano.

L’idea che, per rilanciare l’economia in crisi, la via maestra sarebbe quella di contrarre diritti e remunerazioni del lavoro. Nella completa dimenticanza non solo di John M. Keynes, ma anche di Joseph A. Schumpeter; la sua idea del ciclo economico avviato dall’innovazione. Difatti – checché se ne dica – siamo in un’evidente fase di stallo anche in ambito ricerca-sviluppo: l’ideazione ridotta a marketing (prodottizzazione come gadget, packaging, restyling).

Appunto, buoni propositi accantonati da tempo; mentre avveniva un radicale ricambio di personale politico, sulle cui gambe procedeva l’impoverimento della qualità politica europea. In effetti – nel bene come nel male – Helmut Kohl o François Mitterand avevano ben altro spessore rispetto ai nanerottoli che li hanno sostituiti; pretenziosi quanto inadeguati nella loro pervicace difesa del cadreghino, assecondando le più miopi/micragnose aspettative dei rispettivi elettorati nazionali. Nella convinzione che le demagogie anti-sociali e le assiomatiche dell’individualismo possessivo (il bieco mix tra NeoLib e Terze Vie) rappresentino la via maestra per conquistare e mantenere quel famoso cadreghino.

Un décalage al ribasso che si evidenzia in tutta la sua pericolosità nel luogo di governo del processo di fondazione europea (Bruxelles) e – soprattutto – nel cuore del sistema-Europa (Berlino). Nel primo luogo, laddove l’utopia federale è stata sostituita da un ben più cinico e disperante concerto tra governanti, in cui la potenza egemone la fa da padrona. Caricando sul groppone dell’intera costruzione post-statuale il peso della sua assoluta mancanza di visione, surrogata dall’avidità possessiva da neo-ricchi.

Così l’Europa benevola dell’inclusione e dell’operosità ha mutato volto, soprattutto nel cosiddetto “cuore”, assumendo i connotati malevoli dell’esclusione accaparrativa. Con la fisiognomica a fornircene il segno visivo, dalla maschera vendicativa di Wolfang Schaeuble all’apparente torpore da casalinga saponificatrice di Angela Merkel. La non-leadership che, coltivando ogni forma di egoismo avido di breve momento (e liquidando le prospettive di lungo periodo insite nel capitalismo paziente proprio dell’originario “modello renano”, che ispirò nei primi decenni il processo di costruzione europea), è riuscita a mandare in tilt anche il proprio apparato economico; e – di conseguenza – l’intero continente.

In questa mortifera miscela di miopia e stolida dissennatezza si smarriscono le antiche sensibilità “alpine” del tempo medio-lungo, sostituite dall’opportunismo congiunturale nello sfruttare ogni vantaggio posizionale. Nel caso tedesco la spinta esportativa assicurata dalle svalutazioni competitive a seguito del passaggio dal Marco all’Euro. Con il resto dell’Europa a fungere da primo e più importante mercato di sbocco del prodotto Made in Germany. E con la politica dell’austerity a bloccare i rapporti di forza vigenti, a tutto vantaggio della centralità tedesca.

Una visione statica, che ha gradatamente rallentato lo slancio propulsivo del modello; anche perché il prosciugamento dei Paesi del concerto europeo – al tempo partner e clienti – ha ridotto fortemente le loro capacità di acquisto. Se Henry Ford senior, seppure destrorso simpatizzante per Hitler, capì che per piazzare i suoi prodotti di massa aveva bisogno di un mercato di massa (e aumentò il salario ai propri operai, primi acquirenti della Ford Modello “T”), questi testoni, succubi delle logiche finanziarie modello monetaristico, ripetono la gag del capitalismo da barzelletta: segare il ramo su cui sono appollaiati.

Difatti stiamo assistendo alla caduta del prodotto interno lordo di Germania nel restringersi dei mercati di sbocco dei loro prodotti. Difatti il debito pubblico di questi presunti luterani virtuosi ora raggiunge l’82% del PIL (vabbé, la papista Italia è a quota 133%). Difatti la tradizionale società dei 4/5 sta contraendosi in quella dei 2/3, con un terzo di cittadini tedeschi a ridosso della soglia di povertà (e oltre un milione di pensionati tedeschi che riceve mensilmente meno di 150 euro).

In altre parole, dati da recessione. Mentre ci si conquista lo scalpo di Tsipras per intimorire i critici ed evitare brutte sorprese spagnole in autunno, con Podemos. Mentre il dominio disperante dei contabili da condominio, che spediscono ukase dal Bundestag di Berlino, trascina l’Europa in quella condizione di “stagnazione secolare” che lo scorso anno Larry Summers paventava per un Occidente ormai assuefatto al doping di sempre più pericolose bolle speculative.

 

 

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