Per carità di patria o di partito? Berlinguer e la “Buona scuola” [di Silvano Tagliagambe]

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Chi, come me, ha fatto parte sin dall’inizio e per tutta la durata dell’esperienza della ristretta pattuglia, capitanata da Roberto Maragliano, che ha affiancato Luigi Berlinguer nel suo coraggioso tentativo di portare a compimento, da ministro dell’Istruzione, un progetto sistemico di riforma della scuola italiana, non può non essere rimasto stupito dal giudizio paternalistico e benevolo riservato dallo stesso Berlinguer alla legge del governo Renzi su “La buona scuola”. Perché questa legge è esattamente il contrario di ciò che ci eravamo ripromessi di fare allora, fermati sulla soglia dell’approvazione finale non dall’opposizione di centrodestra, ma dal gioco ostruzionistico di pezzi tutt’altro che marginali della maggioranza di governo, dei sindacati e di talune associazioni degli insegnanti.

Il disegno era chiaro nelle sue linee fondamentali. Prendeva atto del preoccupante deteriorarsi del tessuto sociale, di cui già si vedevano sintomi allarmanti quanto poco avvertiti dai più, e assumeva la scuola come cardine di un’azione capillare volta a ricostituirlo e a dare a esso nuova e più vitale coesione. La ragione di questa scelta non poteva essere considerata opinabile ed era difficilmente contestabile: la scuola, con le sue oltre 45.000 strutture presenti sull’intero territorio (compresi gli istituti pubblici non statali della Valle d’Aosta e del Trentino Alto Adige; fonte banca dati ISTAT, anno osservato 2011), costituisce il più grande e diffuso patrimonio infrastrutturale di cui è dotato il nostro paese, e l’unico luogo rimasto di esercizio attivo e concreto di confronto e di dialogo su vasta scala tra generazioni diverse.

Un patrimonio unico di valore inestimabile, la cui “missione” oggi più che mai potrebbe e dovrebbe essere quella di costituire una rete nazionale connessa di saperi, conoscenze, esperienze, metodologie, e che invece è tuttora scarsamente valorizzato.
L’autonomia doveva essere la leva di questo progetto, sul quale, è bene ricordarlo agli immemori e ai distratti, fu avviata la più ampia consultazione dal basso che si sia mai svolta su questi temi. Il MIUR sollecitò infatti sulla prima bozza del regolamento attuativo (il futuro DPR 275) pronunciamenti espliciti da parte di consigli di istituto e collegi dei docenti delle scuole italiane ricevendo risposte e suggerimenti (spesso poi recepiti) da oltre 6000 su un totale di 10800. Con il risultato di raggiungere il massimo di consenso mai ottenuto da un ministro su un suo provvedimento ma anche, in quella fase, di mettere a tacere quei dubbi e quelle obiezioni che, in ambito sindacale ma anche in qualche associazione, guardavano all’autonomia come portatrice in modo surrettizio di una torsione aziendalistica della scuola.

Nelle loro scuole dirigenti scolastici e docenti seppero vedere invece nell’autonomia lo strumento per affrancarsi dalla scuola delle circolari. Non è un caso, crediamo, che la discussione sul lavoro scolastico come professione cominciò a svilupparsi e a decollare proprio dopo l’introduzione dell’autonomia. Altro che aziendalismo: ci si proponeva di riempire di contenuti concreti il modello di scuola come comunità educativa.

L’obiettivo di ricostituzione del tessuto sociale attraverso una moderna e innovativa politica scolastica era esplicito nel DPR 275, alla base del quale vi era il proposito di dare vita a un’organizzazione a rete, al cui interno le istituzioni scolastiche autonome (da quel momento in poi anche costituzionalmente garantite) venissero messe operativamente in condizione di dialogare e di misurarsi con l’intera gamma dei soggetti operanti nel territorio e aventi titolo per rivendicare un proprio peso nella definizione delle azioni formative, e in particolare:

• l’Unione Europea, che indica gli indirizzi strategici di sviluppo e di coordinamento nel campo della formazione quale componente di un sistema più complesso, orientato al lavoro e alla formazione per tutto l’arco della vita;
• lo Stato, che definisce gli ordinamenti generali della formazione, gli standard di risultato e il sistema per la loro valutazione;
• la Regione, che determina la normativa di competenza territoriale e la gestione della rete scolastica, delle risorse, dei sistemi di supporto e di integrazione;
• gli Enti Locali, che operano nelle forme previste dalla delega regionale;
• i centri della formazione professionale e la serie di agenzie, tra le quali aziende e strutture produttive, con funzioni formative;
• le comunità locali e le famiglie.

La sfida e la scommessa della riforma Berlinguer consistevano pertanto nella capacità di far emergere, da questo libero confronto, uno sfondo condiviso che, pur tenendo doverosamente conto delle differenze delle ispirazioni e degli scopi, riuscisse però a esaltare e consolidare le comuni esigenze formative, strutturali ed economiche e a diventare un nuovo e potente fattore di coesione sociale, basato su una relazione virtuosa tra istruzione, innovazione, partecipazione e concertazione. Un altro aspetto cruciale del DPR 275 è il richiamo, contenuto nell’art. 4 comma 2 lettera d, alla possibilità di “articolazione modulare di gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso“.

La questione posta sul tappeto era quella delle scuole dei piccoli comuni, questione tanto spinosa quanto ineludibile, visti i presupposti e gli obiettivi del progetto complessivo. Anche in questo caso il quesito dal quale partivano l’analisi condotta e le soluzioni proposte era chiaro. Un’entità istituzionale, indipendentemente dalle sue dimensioni, si tratti di Regione o di un Comune, può essere considerata realmente tale se non dispone degli strumenti di governo indispensabili per costituirsi e perpetuarsi come comunità ben identificata e, nei limiti del possibile, coesa? E si può raggiungere un risultato del genere senza poter contare sull’apporto fornito da un’idonea politica culturale e scolastica?

Detto in altri termini, espliciti fino alla brutalità, un comune che non abbia la possibilità di esercitare un minimo di azione formativa e culturale fino a che punto può essere considerato manifestazione di una civitas effettiva, che gli impedisca di essere visto esclusivamente come un’espressione urbanistica ed edilizia, cioè come un semplice aggregato di vie, piazze e case, senza un’identità e un’anima proprie? Se si è consapevoli fino in fondo di questo problema a questo primo quesito ne segue, inevitabilmente, un secondo: in che senso comuni che vengono privati sempre più di servizi e funzioni che permettono loro di assicurare un minimo di coesione sociale possono continuare ad esercitare pienamente il loro ruolo istituzionale?

L’esempio che viene subito in mente è quello del taglio delle scuole dei piccoli comuni: l’eliminazione indiscriminata dei loro presidi formativi va nella direzione opposta del principio di scuola diffusa e priva il territorio di nuclei imprescindibili per la ricostituzione di un tessuto sociale sempre più lacerato. Qui si pone il problema delle tanto demonizzate pluriclassi: si tratta di una questione che attualmente viene solo subita passivamente, come risultato sia della particolare conformazione delle zone montane di cui è ricco il nostro paese, sia del fenomeno della denatalità, che fanno sì che anche oggi, come in passato, esistano classi di piccole scuole che vedono raggruppati, secondo il solo criterio economico del numero, bambini di diverse fasce d’età.

Per quel che concerne l’offerta del servizio scolastico questa situazione sembra creare enormi problemi di organizzazione e di conduzione delle attività didattiche. Partendo infatti dal presupposto che ogni classe ha il suo programma, una pluriclasse richiederebbe una articolata gestione dei tempi con notevoli difficoltà per gli insegnanti e una considerevole riduzione degli spazi di protagonismo degli allievi in ogni singola lezione, per cui la tendenza che si sta affermando, anche qui in Sardegna com’è noto, è quella di chiudere queste esperienze, o almeno di limitarle al minimo indispensabile. La motivazione è che le pluriclassi non sono in grado di garantire un minimo di qualità nell’istruzione.

Il DPR 275, con il suo riferimento alle cosiddette “classi aperte”, indicava una strada alternativa, che, pur dettata dall’esigenza di far fronte a situazioni contingenti e di emergenza, conteneva in nuce un tasso di innovazione notevole sul piano didattico. Si trattava di una soluzione che partiva dal presupposto che le piccole scuole dei comuni minori possano adottare soluzioni flessibili non solo tra classi diverse, ma anche tra plessi vicini, prevedendo accorpamenti di classi per un certo numero di ore settimanali e alleviando così i disagi dei trasferimenti. È una via basata anche su collaudate esperienze internazionali: in Svizzera, per non andare troppo lontano da noi, le pluriclassi sono il risultato non solo di uno stato di necessità, ma anche e soprattutto di precise di scelte demografiche ed economiche. Alcuni istituti di scuola elementare hanno addirittura deciso di farne un modello pedagogico. E quando questo accade, l’autonomia, lo spirito di collaborazione e il desiderio d’apprendimento ne escono rafforzati.

In alcuni cantoni si stima che oltre il 20 per cento degli effettivi siano delle pluriclassi. Nella maggior parte dei casi gli insegnanti sono stati inizialmente messi di fronte al fatto compiuto: la decisione era stata presa dall’alto e a loro non restava che far buon viso a cattivo gioco. Negli ultimi vent’anni però il dibattito sui vantaggi delle pluriclassi è tornato d’attualità. L’Unesco ne ha promosso l’adozione nelle regioni in via di sviluppo e diversi paesi occidentali – tra cui Francia e Stati Uniti – hanno cercato di integrare questo modello pedagogico nel loro sistema scolastico. Tra i cantoni svizzeri particolarmente attivo e propositivo è stato quello quello di Friburgo, che ha introdotto degli atelier specializzati per formare i giovani insegnanti alla gestione di una classe a più livelli. Alla base vi è una chiara filosofia pedagogica: ogni bambino ha il proprio ritmo di apprendimento, che è spesso indipendente dall’età biologica. Inoltre far convivere allievi di età diversa riproduce un modello di tipo famigliare e permette lo sviluppo di competenze sociali che sono particolarmente valorizzate in alcune realtà, come quella rurale.

C’è poi un notevole studio recente di Michael Tomasello, uno psicologo statunitense attualmente co-direttore del Max Planck Institute per l’Antropologia Evoluzionistica a Lipsia, dal titolo Why We Cooperate. Based on the 2008 Tanner Lectiures on Human Values at Stanford (MIT Press, Cambridge 2009) che fornisce un interessante sostegno all’argomento secondo cui la padronanza delle abilità mimetiche non solo è una competenza vitale dell’essere umano, ma è anche qualcosa che riguarda strettamente la cultura e la formazione. Nella sua ricerca sull’apprendimento infantile Tomasello ha mostrato come i bambini sembrino possedere una capacità innata non solo per l’apprendimento delle competenze necessarie per eseguire correttamente un compito, ma anche per l’insegnamento di queste competenze o norme ai loro coetanei o ai più piccoli.

Per esempio, il suo gruppo di ricerca ha osservato che già i bambini in età prelinguistica, da dodici mesi in poi, sono assolutamente in grado di aiutare gli altri a portare a termine un compito indicando con un dito (p. 14). Si è anche constatato che i bambini più grandi di qualche anno si danno molto da fare per insegnare ai bambini più piccoli non solo come mettere in pratica certe abilità, ma anche come farlo in modo da massimizzare la competenza. Per Tomasello questo comportamento deve avere delle basi evolutive: “Credo che il contesto ecologico entro cui queste competenze e motivazioni si sono sviluppate fosse una sorta di cooperativa nel procacciamento del cibo. Gli esseri umani sono stati messi sotto un qualche tipo di pressione selettiva a collaborare nella raccolta di cibo – sono diventati collaboratori obbligati – in modo non comune ai loro più vicini parenti primati” (p. 75).

In breve noi, dai nostri primi anni, sembriamo spinti non solo a imparare il modo corretto per portare a termine un determinato compito, ma anche a trasmettere queste competenze essenziali agli altri. Ed è questo, del resto, il senso complessivo della celebre ipotesi, avanzata da Lev Vygotskij già alla fine degli anni Venti del secolo scorso, dell’esistenza di una “zona di sviluppo prossimale“, o potenziale come oggi si preferisce dire, formata dai concetti di livello superiore rispetto alla fase di sviluppo nella quale l’individuo si trova e che egli riesce ad acquisire anticipatamente proprio grazie all’interazione e allo scambio dialogico con le generazioni più adulte e più competenti.

La zona di sviluppo prossimale è dunque “il luogo“, per così dire, delle rappresentazioni collettive più avanzate rispetto a quelle individuali, relative allo stadio di crescita in cui l’individuo si trova. Essa è l’interfaccia tra il sociale e l’individuale, la zona di confine in cui l’universo delle rappresentazioni collettive e storicamente istituzionalizzate interagisce concretamente con il mondo delle credenze individuali e influisce su di esso, favorendo l’incremento e l’innalzamento del livello dei suoi contenuti.

In questo quadro generale l’apporto delle reti e delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione può intervenire come strumento ulteriore di potenziamento dell’efficacia didattica delle pluriclassi. Si potrebbe pensare ad esempio a modalità di insegnamento miste, in presenza con la diretta conduzione degli insegnanti della pluriclasse, e a distanza attraverso l’interazione con docenti e studenti di istituti di diverse realtà territoriali, che potrebbero “adottare” gli allievi e studenti della pluriclasse, fornendo loro processi d’insegnamento integrativi in rete differenziati, questa volta, per fasce d’età, competenze e interessi. Si realizzerebbe così una sorta di aula aumentata, all’interno della quale, come succede in modo sempre più diffuso in sistemi scolastici avanzati e di comprovata efficacia, come quelli della Finlandia e in Svezia, ogni singolo studente, anziché seguire un curriculum e un piano di studi uguale per tutti, se ne possa costruire uno proprio personale, “calibrato” sulle sue specifiche esigenze formative.

In Sardegna dove, grazie al progetto “Scuola digitale”, tutte le aule del sistema scolastico regionale, dalla prima elementare all’ultimo anno delle superiori, sono dotate di una LIM e di un accesso a Internet, questa sperimentazione potrebbe essere avviata immediatamente e senza costi aggiuntivi. Anziché imporre dall’alto il taglio delle pluriclassi, provocando le dure reazioni e le proteste che ci sono state a tutti i livelli e che sono destinate a estendersi ulteriormente nel caso che si decida di proseguire su questa strada, i sindaci e le famiglie dei piccoli comuni potrebbero essere invitati a scegliere tra l’eliminazione del presidio scolastico locale e il trasferimento forzato degli allievi nelle scuole di altri comuni, spesso raggiungibili in tempi tutt’altro che marginali, data la situazione della rete stradale, o la sperimentazione di un modello di “blendend learning”, quale quello qui sommariamente esposto.

In questo modo le comunità locali, anziché subire passivamente le decisioni e le scelte altrui, sarebbero messe in condizione di partecipare al processo decisionale riguardante temi e aspetti che non solo li coinvolgono direttamente, ma risultano cruciali per lo sviluppo e il destino futuro del loro territorio. Questo per dire che se la scelta é per la priorità dell’educazione e della cultura, allora la specificità didattica della pluriclasse, nella prospettiva dell’attuale modello scolastico, può trasformarsi da potenziale criticità in risorsa educativa. Le suggestioni metodologiche che ne derivano, infatti, possono valere anche per contesti differenti, compresi quelli urbani, comunque oggi segnati dall’identico bisogno di dare senso alla scuola in rapporto alla comunità che la genera e ne usa, perché prendano vita, cioè, esperienze formative corrispondenti a un progetto responsabile di comunità civile, di cittadinanza, di sostenibilità educativa.

Questo sempre che si voglia e si sappia affrontare il problema delle politiche scolastiche in modi che, anziché seguire concetti pedagogici superati e modelli universalistici sempre più banali e ormai obsoleti, sperimentino concretamente soluzioni originali e autonome, “tagliato” sulle esigenze specifiche del territorio da governare.

Si potrebbe così dare avvio a un progetto basato sull’idea di scuola aperta e diffusa, conforme alla riforma a suo tempo proposta da Luigi Berlinguer, che è certamente quello che meglio si presta a contrastare le attuali carenze del nostro sistema scolastico e a cercare di invertire la tendenza rispetto all’esplosione della dispersione scolastica e all’incremento allarmante, soprattutto nelle regioni meridionali, del fenomeno dei NEET, dei giovani totalmente al di fuori di ogni circuito occupazionale e formativo.

Questo progetto dovrebbe basarsi proprio su una corretta definizione di aula digitale, che costituisce uno spazio dinamico in cui convergono linguaggi digitali e strumenti multimediali a supporto di metodologie e strategie didattiche alternative che favoriscano la stimolazione multisensoriale e multimodale (attraverso l’utilizzo di vari codici di comunicazione quali suoni, immagini, filmati) degli studenti e l’inclusione (attraverso software dedicati) di alunni con ogni tipo di disabilità (inclusi i DSA). Quest’aula, proprio per le sue caratteristiche, rappresenta un ambiente di apprendimento in cui è possibile riservare la dovuta attenzione alla riscoperta della manualità, del fai da te, del corretto utilizzo di utensili domestici, e quindi alla valorizzazione di tutte le forme di intelligenza e di competenza che non si esauriscono nell’egemonia incondizionata dell’astrazione e del calcolo e che prevedono altre modalità di accesso alla conoscenza e ai saperi.

E’ dotata di: connessione wi-fi alla rete internet a banda larga; LIM o da un computer che funge da server intra- ed inter net (collocando i dispositivi di ciascuno studente all’interno di una rete dinamica e interattiva); una postazione grafica con stampante 3D e scanner; un numero adeguato di dispositivi iindividuali tipo tablet PC disposti in rete cui ciascuno studente possa accedere ai contenuti proposti dal docente, esprimersi in maniera interattiva, scaricare in ogni momento il materiale didattico di volta in volta prodotto e interagire con docenti e studenti dello stesso o di altri istituti così da congiungere ogni componente della comunità scolastica nazionale in un reale network dinamico e in continua evoluzione. Ecco, proprio questo è il punto. Creare, come si potrebbe agevolmente fare, in virtù delle opportunità di cui disponiamo grazie allo sviluppo delle ICT, una Rete Educativa nazionale, che possa costituire davvero un network nazionale, capillarmente diffuso e connesso di saperi, conoscenze, esperienze, metodologie, tuttora scarsamente valorizzato, può consentire di sperimentare soluzioni davvero innovative ed efficaci.

Aperture di questo tipo, che anziché guardare soltanto al contenimento dei costi, tengano conto anche delle esigenze, altrettanto oggettive e imprescindibili, di valorizzare le dimensioni ambientali dei contesti sociali e le risorse culturali delle comunità che insistono su un territorio, erano il cuore e l’anima del progetto di riforma Berlinguer, che puntava, come si è detto, a ricostituire uno spirito di comunità e a irrobustire il tessuto sociale a partire dalle istituzioni scolastiche autonome e sulla base dell’ingente capitale umano e sociale di cui esse dispongono. L’obiettivo era dunque la sperimentazione, nelle scuole, di un nuovo modello di governance, basato sul complesso di relazioni tra enti territoriali e soggetti istituzionali diversi, che emerge e si consolida in seguito a una crescente e sempre più capillare richiesta di partecipazione delle popolazioni interessate. Un modello che, per essere governato, richiede un «reticolo amministrativo» costituito da una pluralità di soggetti, che si raccordano attraverso un’organizzazione diffusa, caratterizzata da dinamiche di collaborazione e di interdipendenza.

L’esatto contrario dell’imposizione dall’alto, al sistema scolastico, di una struttura di governance mutuata dall’esterno e basata su altri tipi di esigenze e di esperienze, che è il tratto distintivo della riforma impropriamente e incautamente chiamata “La buona scuola”. Per questo il giudizio assolutorio e comprensivo di Berlinguer stupisce e fa sorgere il dubbio che si tratti di una distorsione della vista per carità di patria. O per carità di partito, che sarebbe ancora peggio.

3 Comments

  1. maurizio tiriticco

    Caro Silvano! E’ molto tempo che non ci sentiamo, ma constato piacevolmente che gli… amorosi sensi sono sempre gli stessi. Anch’io mi sono meravigliato per il sostegno incondizionato che Luigi Berlinguer ha dato alla Buona scuola! Dopo il suo intervento alla Convention dello scorso febbraio, pubblicai sul web il pezzo che forse avrai visto, intitolato “Caro Luigi! Mai più margaritas ante porcos!” E sono molto preoccupato per la bagarre che avrà inizio a settembre e che avrà una lunga durata! Ci vorranno anni per rovesciare i nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione” come un guanto!!! Maurizio Tiriticco

  2. cristina lavinio

    Caro Silvano, io invece non sono affatto sorpresa del sostegno di Luigi Berlinguer alla renziana buona scuola, dal momento che fin dall’inizio ero convinta che quel progetto andasse esattamente nella direzione che ora si sta concretizzando. C’era troppa fiducia nella presunta maturità e nella presunta capacità di realizzare responsabilmente l’autonomia da parte di personale (a partire dai dirigenti scolastici) per niente formati in tal senso; per non parlare della eccessiva fiducia in una scuola che sappia sfruttare al meglio la rete e le tecnologie connesse, quando è invece sempre più chiaro che occorre dotare gli allievi di strumenti per, prima di tutto, DIFENDERSI dalla rete, cioè per saperla usare criticamente, senza diventarne succubi acritici: occorre insegnare loro a leggere e ad apprezzare la lettura di libri anziché accontentarsi della lettura superficiale, frammentaria e sussultoria che la rete favorisce. Tutto ciò, senza demonizzarla, ovviamente, ma anche senza pensare che uno studente diventi automaticamente più ‘avveduto’ perché gli si mette in mano un tablet (costoso e che gli potrà durare ben poco) o perché gli si insegna qualcosa usando la LIM anziché usando, quando serve e se serve, persino – ancora – la vecchia lavagna su cui scrivere con il gesso. Finché non si capirà che qulunque riforma della scuola non avrà modo di realizzarsi se non a partire da buoni insegnanti debitamente formati (e in formazione continua) non faremo altro che fare buchi nell’acqua (o restare solo impigliati nella rete). Aule digitali? possono essere solo (e in qualche caso lo sono state) un business sinistro, per cui spendere molto senza poi trovare molti che se ne sappiano davvero servire in modo proficuo. E senza mettere nel conto la continua rapida obsolescenza di strumenti, programmi e software …

  3. Dedicato a Berlinguer. La buona scuola si dimentica della buona musica.

    http://www.orizzontescuola.it/news/dov-musica-promessa-nella-buona-scuola

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