Carlo Felice e gli altri [di Alessandro Mongili]

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In questi giorni un comitato cagliaritano si è mosso per chiedere la rimozione della statua di Carlo Felice dal Largo. La statua, com’è scritto sul suo basamento, è stata eretta per voto degli Stamenti, il nostro parlamento d’Ancien régime. Di fronte alla statua c’è Piazza Yenne, dedicata a un viceré piemontese. A destra, Via Manno, dedicata cioè al Segretario di Carlo Felice, nonché storicufficiale della Scelta dei Savoia e dell’Italia da parte dei gruppi dirigenti sardi. A sinistra della statua, Corso Vittorio Emanuele II.

Tutto intorno, abbonda l’intitolazione risorgimentista e sabauda: Cavour, Crispi, due Regine, un podestà fascista (cosa vergognosissima), altri Viceré tirannici, Mazzini, Garibaldi, Lamarmora, Martini, ecc.. Non c’è quasi angolo del centro storico di Cagliari che non sia stato intitolato a eroi del Risorgimento (a cui la Sardegna non partecipò, se non nei vaneggiamenti di altri storicufficiali, anche a noi contemporanei), ma soprattutto di esponenti del ceto dirigente sardo che scelse di sentirsi italiano, in cambio di un ruolo subalterno ma di dominio locale. Incapace cioè di elaborare una politica in loco,  ma esecutore di politiche decise altrove.

Nelle intitolazioni delle vie di Cagliari (ma anche delle altre città sarde) è incisa la biografia della nostra nazione, e della sua abdicazione rispetto a se stessa. La sua eterna infanzia, e il disastro che questa scelta ha prodotto.  La statua del Re Feroce è la chiave di questo sistema di occupazione delle intitolazioni e delle denominazioni da parte di un ceto che si prende il potere locale e trova la sua legittimità nei dominatori stranieri, ieri come oggi. È il suo apogeo.  Anche i nuovi quartieri sono spesso colonizzati da intitolazioni dirette a immortalare mediatori politici di decisioni prese a Roma o a Milano, che peraltro tutti abbiamo dimenticato in quanto si è trattato, diceva Gramsci, di zerità assolute.

Ovunque, quando sorge un movimento che prende di mira le gerarchie sociali, si pone il problema delle denominazioni dei luoghi. Lo spazio urbano è anche un luogo di significati, oltre che di usi, di mobilità, di organizzazione della nostra vita (e in quest’ultimo aspetto ha una certa rilevanza la denominazione dei luoghi in quanto è utile per organizzare la mobilità e avere riferimenti condivisi. Si tratta di una pratica che rende naturale dirsi “ci vediamo alle 19.00 in Piazza Hitler, sotto il monumento di Dzeržinskij o in Piazza Yenne”, pensando all’aperitivo e non alle forche o alle camere a gas).

La richiesta di rimuovere la statua di un tiranno non deve dunque stupire. È normale, succede ovunque e in modo ricorsivo, promossa da minoranze attive e coscienti. È chiaro che se una parte della cittadinanza non si sente più italiana e non riconosce più la leadership dei gruppi politici locali subalterni alle fazioni politiche “nazionali” (cioè “italiane”), contesterà anche il deposito di questa scelta nei luoghi pubblici, attraverso statue, denominazioni e altri segnali.

Che in Sardegna sono naturalmente moltissimi e pervasivi rispetto al tessuto urbano. Quasi a voler controbilanciare il carattere artificioso e costruito della nostra “italianità”, che è anch’essa un sentimento molto diffuso fra i sardi, anche se ha fondamenti discutibili nella nostra condizione e nella nostra storia. È un costrutto molto fragile se ha bisogno di tutto questo apparato scenico, oltre che di uno sforzo di rimozione della nostra condizione storica che ancora inconsciamente agisce in tutti noi, anche a livello personale. Tuttavia, essa è “naturale” e scontata per i più, tanto che in pochi hanno chiara l’operazione compiuta da chi ha colonizzato la nostra toponomastica con gli eroi della dipendenza.

A mio parere, si dovrebbe approfittare di  questa protesta per chiedere formalmente ai candidati sindaci di Cagliari quale sia la loro posizione su questo punto, e cioè non tanto e non solo la rimozione della statua di un Re, quanto quella, più generale, relativa alla colonizzazione e all’occupazione da parte del ceto politico e dirigente della toponomastica cagliaritana. Mi capita, in questo momento, di essere a Tokyo per lavoro.

Tokyo, com’è noto, è una città di 13 milioni di abitanti priva di toponomastica. Cioè le sue strade non hanno nome e le sue case non hanno numero. Anche nelle città americane, le strade sono numerate e le intitolazioni sono discrete e rare. Spesso, anche in Italia, si è più discreti che a Cagliari. Nei centri storici si rispettano le denominazioni antiche, e le vie e le piazze dedicate agli eroi risorgimentali e ai politici locali non sono così volgarmente imposte come a Cagliari. Questo perché lo spazio pubblico è di tutti, e intitolare una strada significa affermare gerarchie simboliche, ma anche far entrare una parola nell’uso comune di tanta gente, e significa anche escludere.

Non sarebbe il caso di introdurre alcuni principi, come ad esempio il ritorno, neutro e rispettoso, alle bellissime denominazioni storiche di quelle vie? Perché il Corso non si può chiamare Ruga de su Brugu o Pratza de Santu Franciscu, il Largo Pratza de su Mercau, via Manno Ruga de sa Costa, ecc.? Come a Venezia o a Padova, a Barcellona o a Napoli, dove queste denominazioni aiutano fra l’altro a dare fascino ai luoghi. Perché mantenere intitolazioni a tiranni, ai loro servi, addirittura a fascisti e a esponenti dell’odiosa dinastia sabauda? Anche nei quartieri nuovi, perché non ricordare almeno con una strada per rione il nome sardo che in moltissimi casi i terreni su cui si è edificato possedevano?

Anche in questo caso non sarebbe diverso da quel che si fa ovunque. Perché non rispettare il fatto che almeno 1/3 dei cittadini non si senta italiano ma sardo (i sondaggi dicono anche di più)? E contemporaneamente che in tanti si sentano italiani di Sardegna? Se al posto di un agonismo che non porterà a nulla si stabilisse un dialogo fondato sull’idea che le strade non sono di questi o di quelli, ma di tutti, e che magari sarebbe una buona idea non intitolarle a potenti, ma ridar loro i nomi antichi, dei mestieri che si facevano, dei luoghi che caratterizzavano.

Penso a Mosca, una città che si è ritrovata un simile problema di ipercolonizzazione delle denominazioni dei luoghi da parte di un potere invasivo, in questo simile al nostro. Bene, dopo la perestrojka, si fece proprio questa scelta. La Piazza del Cinquantesimo Anniversario della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre, una grande piazza accanto al Cremlino, ridiventò semplicemente la Piazza del Maneggio, e così ovunque, quando fu possibile. Penso che questa scelta sia stata ragionevole, e anche duratura.

Personalmente sono sicuro che purtroppo la Giunta Zedda non arrivi a capire questi problemi, e in ogni caso non abbia voglia di affrontarli. La loro risposta è sempre stata elusiva: non si può, troppa fatica, ma chi se ne frega, ecc. In fondo sin dall’inizio si sono candidati alla gestione della nostra subalternità in continuità totale con i vecchi gruppi dirigenti (“Ora tocca a noi”).

Ma gli altri candidati?

3 Comments

  1. Giovanni Serreli

    Gentile Alessandro Mongili, ho letto con attenzione il suo articolo e, debbo dire che su alcune richieste mi trovo persino d’accordo, anche se per motivi ben diversi da quelli che la animano. Ma commento il suo contributo a proposito di un passaggio (“vaneggiamenti di altri storicufficiali, anche a noi contemporanei”): sarebbe opportuno che il lettore conoscesse a chi lei si riferisce e che, soprattutto, all’impianto storico di coloro che lei critica (gli “storicufficiali, anche a noi contemporanei”) venisse contrapposta una altrettanto meticolosa analisi storica fatta sui documenti che smentiscono quanto lei critica. Ancora: prima di tutto sarebbe opportuno saper maneggiare bene gli strumenti dello storico. Altrimenti tali critiche appaiono generiche, vuote, non fondate, come spesso è accaduto alla classe dirigente di Sardegna. Con codialità, Giovanni Serreli

  2. sergio gabriele cossu

    Osservazioni molto acute. Proposte ragionevoli. Complimenti.

  3. Pingback: La teoria delle “finestre rotte” e i processi di sensemaking: il caso della statua di Carlo Felice [di Giuseppe Melis] | Sardegna Soprattutto

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