E l’isola va. La seconda modernizzazione della Sardegna di Gianfranco Bottazzi [di Gianni Loy]

Da giovane professore – appena sbarcato in una terra che sarebbe diventata la sua casa – quando riceveva un invito: “Ci vediamo domani”, era solito rispondere: “Sì, ma a che ora?”. Era, ed è, la cifra del percorso scientifico (e non solo) di Gianfranco Bottazzi, sempre attento ad ancorare la ricerca su basi solide e documentate, anche a rischio di perdere i lettori privi della pazienza, e del gusto, di comprende sino in fondo le dinamiche della terra in cui viviamo.

La sociologia, De Rita insegna, si avvale dell’affabulazione, dell’immagine, del neologismo, per sintetizzare i complessi fenomeni sociali che accompagnano le trasformazioni. Sbandierare la  sintesi può risultare accattivante. Ma ha senso solo se rappresenta la conclusione di una puntuale osservazione e misurazione dei fenomeni passati al setaccio.

Non so se Gianfranco ami i numeri, ma sicuramente, nel suo ultimo libro, (E l’isola va, Il Maestrale) li utilizza ampiamente, a giustificazione del ritratto di un’Isola che procede, seppure a fatica. Procede senza colmare il divario rispetto alle regioni più attrezzate – quelle che, non si dimentichi, hanno intrapreso in anticipo il percorso dell’industrializzazione e della modernizzazione – ma senza perdere posizioni; insomma, un’isola che riesce a mantenersi dignitosamente nella pancia del gruppo.

Il passato – sia quello lontano che quello più recente – condiziona la società sarda. Il fallimento della “prima industrializzatone”, nonostante tanta acqua sia scorsa sotto i ponti,  ancora compare nello scenario. Ma gli errori non giustificano l’ingenuo sogno di un ritorno all’Arcadia, a “su connotu”. Non perché non vi si possano trovare – anche in campo economico – germi utili per un futuro fertile; ma perché occorre prendere atto che ormai da tempo, volenti o nolenti, ci muoviamo all’interno di un sistema che impone altre regole di gioco.

Tutto scorre: l’antico meccanismo dell’assistenzialismo si è evoluto in un sistema di ammortizzatori sociali che, al pari del precedente, pur colmando bisogni meritevoli di tutela, è imperfetto e ingiusto. Altri fenomeni, come l’elevata dipendenza dell’economia dai servizi pubblici, si confermano. Il clientelismo evolve nelle forme, confermandosi patologia endemica.  E poi l’altra, ancor più terribile e diffusa, patologia sociale, quella del sommerso, che distorce le regole del mercato – a partire dal sovvertimento delle regole della concorrenza – e, sopra tutto, incide sull’etica della comunità favorendo il sorgere di relazioni collusive e una diffusa illegalità.

L’autore, in definitiva, fornisce le prove di come la società si confronti, oggi, con il suo recente passato. Lo fa scansando, senza tentennamenti, gli stereotipi disseminati lungo il percorso, i luoghi comuni, le leggende metropolitane e per far ciò i numeri aiutano. Il sociologo non predice il futuro, ma può fornire conoscenze che ci consentono di immaginarlo quel futuro, ancor prima di viverlo.

Quanto a tale prospettiva, Gianfranco Bottazzi stringe il cerchio, individua i germi patogeni, i nodi irrisolti che vanno oltre la tecnica e sconfinano nell’etica. Mette in discussione le divinità ingannevoli, come il PIL; avverte della differenza tra i profitti derivanti dall’attività d’impresa e quelli che arrivano grazie alle scorciatoie della finanza; mette in guardia dalle facili lusinghe di cui è disseminata la nostra pubblicistica, avvertendoci, ad esempio, dei rischi insiti nelle monoculture, compresa quella del turismo.

Nel firmamento dell’autore, in ogni caso, è ben presente una stella polare, l’idea che a guidare le nostre azioni dovrebbero essere l’utilità per le persone – uomo e donna – e per la società, e non il profitto comunque perseguito. Dimenticavo: la debolezza delle istituzioni, crocevia dei mali che ancora ci affliggono – ahinoi – è confermata. Potrebbe essere una ragione in più per consigliare la lettura di questo testo, oltretutto gradevole, ai governanti e, più in generale, agli addetti ai lavori.

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