Storie Sarde [di Francesca Gallus]

Proust

SardegnaSoprattutto da oggi pubblica brevi racconti. Chiunque può inviare il suo racconto alla nostra Redazione. Iniziamo con Francesca Gallus che nella vita è mamma di due ragazzi ed è anche ingegnere (NdR).

Poiché è d’obbligo che un narratore nato in Sardegna scriva storie sarde, mi accingo a farlo, per meritare un titolo a cui aspiro. Nessuno che sia nato o viva nell’isola può sottrarsi dall’esprimerne l’anima, che deve per forza permearlo e avvincerlo con la sua rude potenza. Chi scriva di alieni o meteoriti, di viaggi lontani o del dolore della giovinezza è ripudiato o compatito perché l’etnia reclama il suo tributo. E non importa se si è nati sul mare, da generazioni di cittadini di lingua italiana, avendo visto la campagna solo in gita, per funghi.

È un po’ come essere irlandesi: non ci si potrà esimere dal raccontare di Paddy e sua moglie, della loro misera fattoria isolata nella campagna, della morte del loro undicesimo figlio e di come la troppa birra li abbia allontanati per sempre, chiudendo intorno a loro il cerchio di una solitudine affollata di mucche e vicini di casa. Il sardo parlerà della sua terra orgogliosa ed aspra, della fierezza del suo popolo di poche parole, delle belle donne brune e dei loro occhi neri, della solitudine di pietra e lentisco del pastore, del cibo povero, dell’orgogliosa miseria.

Anch’io scriverò una storia densa di cose non dette, di uomini dalla faccia cotta dal sole dei pascoli avari, di passioni che dominano cuori impavidi, di cavalcate, di pleniluni. Scriverò di due fratelli identici, che, amandosi teneramente, si giurano vendetta a causa di due donne sconsiderate, delle loro veglie di morte, dei coltelli. Scriverò delle due donne, dei loro corpi giovani e forti avvolti nei panni neri del lutto per un parente ucciso, delle loro brocche di terra e smalto da riempire alla fonte sulla montagna, della fatica quotidiana, del pane cotto nel forno, della loro nostalgia di vedove bianche nell’attesa di una visita notturna del pastore lontano. Scriverò delle loro case di granito, una porta e una finestra, e della strada bianca e polverosa che le unisce, ai piedi della montagna, dell’unica bottega del paese, del venditore ambulante, del buon medico e del parroco avaro.

Scriverò delle seggiole di paglia fuori dalla porta nei pomeriggi di sole e nelle notti estive, e della gelosia, del sospetto, che trasformano due complici amiche in crudeli antagoniste. Scriverò dell’insonnia e della febbrile fantasia che l’accompagna, di un cavallo ben noto legato di notte fuori dalla porta sbagliata, di una figura scura, in tutto uguale al suo doppio, che scivola fuori da un uscio socchiuso, della mano bianca, brillante alla luce della luna piena, che ruba un’ultima carezza.

Racconterò delle preghiere, nella penombra umida della minuscola chiesa, delle ginocchia tumefatte sulla panca di legno, delle nocche bianche dal troppo stringere le mani giunte. Dirò della confessione nell’odore di cera e incenso, del prete distratto dai suoi conti e delle sue parole inopportune, che alimentano una fiamma che avrebbe potuto essere spenta. Parlerò del veleno che la mente di femmina sa condensare e porgere come un dolce liquore all’uomo innamorato. E perché so che ancora non basta, scriverò di due cugini coetanei, simili come fratelli, scalzi, allegri, ancora troppo bambini per andare in campagna, che tirano le pietre ai cani, fanno la lotta, catturano lucertole.

Descriverò l’amore scarno e sobrio, avaro di carezze, delle madri per i loro primogeniti, espresso solo in gesti di cura, strappando per loro un boccone di pane più grosso, coprendoli meglio mentre dormono, chiamandoli forte, coi loro nomi antichi di santi di second’ordine, quando la sera, avanzando, porta l’ombra lunga della montagna a rinfrescare la strada. Infine, con poche frasi, racconterò la condizione dell’assassino, l’atrocità del gesto infanticida di chi alza l’arma su un innocente, nel segreto del bosco, quando ogni fiducia è stata tradita, ogni legame infranto e l’uomo, ripresa la sua natura ferina, provoca orrore nelle bestie selvagge. Racconterò l’ansia di chi aspetta un ritorno che non avviene, la richiesta di aiuto, le domande, la convulsa ricerca e la scoperta agghiacciante. La veglia, i pianti, il colore livido della vendetta.

Scriverò, senza indulgere, del compimento della tragedia, della seconda infanzia spezzata, del disgusto di Dio. E chiuderò la mia storia crudele con un duello mortale, fra due uomini che sembrano lo stesso uomo, che portano nel cuore lo stesso dolore inconsolabile. Alla fine di questo bagno di sangue senza redenzione descriverò la natura indifferente, il maestrale impetuoso che purifica e prostra, il verde oliva di una terra inaridita. Avrò fatto il mio dovere, pagato il pegno alla sardità, e potrò poi dedicarmi a descrivere terre lontane.

Lascia un commento