Il taglio del canneto [di Franco Mannoni]

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In quella mattina di ottobre posero mano al taglio del canneto. Per chi percorreva la strada statale in uscita dal paese, da quel che il paese era prima della recente espansione, il canneto copriva la visuale di una vasta area sulla destra del ponte. Una zona umida, resa tale dal torrente che conosceva periodi di magra come repentine e irruenti riprese di attività. L’intrico di canne formava un sipario compatto, dietro il quale si trovavano terreni coltivati a orto o frutteto. Piccoli appezzamenti facilmente raggiungibili a piedi dal paese.
Vi si potevano incontrare grandi alberi di fichi e, non rari, di ciliegie.

Lungo il torrente si srotolava un sentiero, chiuso fra muretti a secco sovrastati da siepi impenetrabili di rovo, che conduceva, attraverso un boschetto di ginepri, fino alle dune sabbiose di ponente. Percorrendo la statale si poteva credere che, dietro la cortina, tutto fosse restato più o meno come prima. Che magari, in primavera, si sarebbe potuto ripercorrere quel sentiero come si faceva, da ragazzi, fino a conquistare, oltre il crinale della collina, la vista luminosa del mare.

Un flash, un’illusione accarezzata e alimentata dalla permanenza, nell’immaginario individuale, di quadri ormai distrutti dal tempo, a volte per necessità, altre per ingordigia.

Finché, appunto in un mattino di ottobre, ti guardi a destra e percepisci che il canneto non c’è più. Da quel che ne rimane, appare come se si fosse inginocchiato e poi disteso a terra.
Dev’essere che anch’esso faceva parte di una lottizzazione, che occorreva fare spazio a qualche attività, a qualche edificazione.

La caduta del sipario di canne è come un disvelamento che cancella l’illusione che al di là di esso si mantenessero, più o meno, le cose di prima, le cose ricordate. Scopri, invece, che l’orizzonte è dominato da nuove case, che, dalla collina sovrastata dal deposito dell’acquedotto, dilavano come una colata fino alla fontana pubblica e da questa risalgono in leggero pendio verso sud.

Tutte uguali, concepite secondo un modulo a due o tre livelli, con giardinetti, scale, finti archi e così via. Il modulo si ripete fin dove la vista può seguirlo. Tutto è dipinto di gialli ocra, rosa, celeste. E’ stato edificato, in poco tempo, un nuovo paese, di sicuro non per soddisfare il bisogno di alloggi dei residenti, ma per arricchire l’offerta di nuove residenze turistiche. Una immensa, consapevole, cinica speculazione. Alla quale il taglio del canneto ha sottratto il pudore della foglia di fico.

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C’era un grande ciliegio, piantato fra altri alberi da frutta più esigui, in un appezzamento non lontano dalla fontana. Al termine dell’anno scolastico, erano sui sedici anni, si era ritrovato ad Aldianoa con un gruppo di coetanei, maschi e femmine. Fra di essi Teresa, con la quale intratteneva una amicizia tenera. In un tardo pomeriggio di metà giugno si erano recati insieme alla fontana e da lì, si erano diretti a risalire la collina lungo la stradina che costeggiava i poderi.

Teresa era graziosa e un poco pazzerella, fresca e vivacissima. Si conoscevano fin da bambini, ma, ormai adolescenti, la reciproca attenzione si nutriva di un interesse più forte e coinvolgente. Videro sull’albero rosseggiare le ciliegie e decisero di saltare il muro.
Con cautela, furtivamente, si avvicinarono al tronco e Serra si arrampicò fino ai primi robusti rami. Colse alcuni frutti e li porse alla ragazza, poi saltò giù.

Già questo fare clandestino, trasgressivo, accresceva la complicità fra i due giovani.
Assaggiarono i frutti rossi e succulenti. A Teresa si fermò un piccolo pezzo della polpa all’angolo della bocca. A lui venne spontaneo chinarsi verso il suo volto e portare via quel piccolo brano del frutto con le labbra. La ragazza restò per un istante interdetta. Poi si protese in avanti e appoggiò le sue labbra su quelle del ragazzo, per un momento breve e lungo allo stesso tempo. Un bacio? Sì, forse. Poi si sorrisero e continuarono a gustare insieme le poche ciliegie.

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Provò un senso di disagio per la visione che, inattesa, gli si era presentata. Fastidio fisico, come un nodo allo stomaco, delusione, come capita quando ti sottraggono qualcosa di caro.
Aggiungeva una ulteriore sconfitta al suo carnet, la perdita di una rassicurante illusione, a pensarci bene. Poteva forse immaginare fondatamente che tutto fosse rimasto come prima solo in quella porzione di territorio? Sicuramente no, ma la scoperta era più dolorosa perché si aggiungeva a tutte le altre che l’avevano preceduta, non meno brucianti.

Fastidio e indignazione. Posto che ancora gli fosse rimasta la risorsa dell’indignazione. Del resto non sapeva bene se fosse opportuno coltivarla o accantonarla. Essa infatti ha senso se funziona come propellente per generare una reazione positiva, sia essa protesta o, meglio, proposta. Se produce un impegno. L’esperienza vissuta come anche il prevalere entro il cerchio dell’orizzonte che gli apparteneva, della tendenza ad acconciarsi a traguardi di basso profilo, sembravano indicargli la rinuncia all’indignazione.

Per indignarsi occorre la fiducia di poter correggere il corso delle cose, di poter arginare lo scivolamento verso il basso e scommettere su cambiamenti positivi. Tutto ciò che aveva visto succedere negli anni recenti sembrava suggerire di lasciar perdere. Il primo decennio degli anni Duemila si avviava alla conclusione con un bilancio pesante. Il mondo conosciuto e praticato, fino a ieri pervaso di fiducia nel progresso, ha subito cadute e tracolli impensabili.

Il crollo delle Torri Gemelle ha spalancato le porte alla paura. Paura fisica, dell’evento imponderabile e catastrofico che può verificarsi ovunque. Nessuna porzione di mondo, anche la più difesa e riposta, può ritenersene esente. Il terrorismo, quello reale e quello ingigantito da chi aveva interesse ad agitarne lo spettro, da allora vive con noi come paura e come alibi.

Da ultimo, la crisi mondiale finanziaria, della produzione e del lavoro, rendono i nostri giorni e le nostre notti pieni di incertezza e di angoscia. In un mondo siffatto le costruzioni svelate dal taglio del canneto apparivano addirittura incongrue. – Chi se le compra, nelle condizioni attuali? Forse solo denaro sporco può fiutare l’affare a basso prezzo.

Immaginò , pur senza indignazione, ma con una punta di sadismo, che rimanessero invendute, che il calo dei prezzi potesse generare l’aspettativa di un nuovo calo. Che infine potessero essere acquistate per poco da qualche istituzione per farne abitazioni per immigrati. Disegnava così una vendetta, una sorta di nemesi storica.
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Lo spirito che fin dall’inizio aveva motivato il suo ritorno andava perdendo consistenza.
Guardare al passato per capire sé stesso e contrastare l’insicurezza non costituisce un percorso dall’esito assicurato. In assoluto vi è il dubbio che possa davvero essere utile. Nella circostanza gli si rivela anzi come un probabile insuccesso.Che si aggiungerebbe ai numerosi messi insieme in generale da quelli della sua generazione, che ha mancato tutti gli obiettivi che si era proposta. La realtà l’ha tradita o era la fiducia di poter imprimere al corso delle cose una direzione razionale ed equa ad essere illusoria?

E’ probabile che sia cambiato qualcosa nella testa delle persone, o forse molto di più.
All’origine di decisioni prese c’è sicuramente la forza di interessi e di egoismi che si impone a qualsiasi remora, a qualsiasi scrupolo morale , a qualsiasi esigenza estetica.Nella testa delle persone è sempre più remota l’idea di fare bene una cosa e di rispondere personalmente del buon esito di ciò che si fa.

Se dovesse chiedersi chi sia il costruttore di tutte quelle case, chi ne risponde, Serra resterebbe senza risposta. Tutti e nessuno in particolare. C’è chi ha deciso di far crescere il paese in quella direzione e in determinate dimensioni, chi ha disegnato il progetto, chi lo ha approvato e chi ha costruito il villaggio, chi ne ha stabilito i colori. Alla fine il prodotto è là, figlio di tutti e di nessuno. C’è una bella differenza con il fare del tempo passato. In cui l’artigiano costruiva un oggetto utile e bello, che ancora oggi, dopo un secolo, magari, è tuttora utile e bello. C’è persino ancora qualcuno che tramanda il nome del costruttore.

Un tavolo, ad esempio, un tavolo rotondo, con una gamba centrale appoggiata su quattro zampe. Fatto con legni diversi quale noce olivastro, mogano. Lavorato a intarsio e lastronatura. Il piano rappresenta una rosa dei venti i cui bracci sono una alternanza di legni e di colori. Un lavoro di alto artigianato, eseguito nell’Ottocento da un ebanista del paese, perfetto. Che aveva trasferito in quell’oggetto una parte di sé, il suo saper fare, producendo, con cose inanimate, un prodotto vivo, preciso, misurabile e, soprattutto, ammirevole.

Da allora a oggi è scomparso l’orgoglio della propria capacità, il culto dei mestieri tramandati e appresi, la fierezza per il risultato raggiunto e riconoscibile. Siamo passati al tempo della competizione, della fretta e del giorno per giorno. Fare in fretta guadagnare consegnare allontanarsi dalla porzione di opera disconoscere la paternità del lavoro svolto.
 

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