Ingombranti meraviglie… che siamo riusciti a realizzare ma non siamo capaci di conservare, e forse neanche di capire… (II) [di Aldo Lino]

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Il Ponte di ferro di cui si è detto era stato realizzato con il sistema della scatola di montaggio. Ricorrendo alla fornitura industriale dei singoli elementi, prodotti in officine siderurgiche inglesi, venne assemblato sul posto: con grossi bulloni per i principali nodi strutturali e con la tecnologia del rivetto per gli elementi secondari, la medesima tecnologia utilizzata per la coetanea Torre Eiffel.

Si giustapponevano, con minime tolleranze, i profili di acciaio precedentemente forati; facendo corrispondere perfettamente i fori, vi si inseriva un grosso chiodo di ferro con capocchia reso incandescente alla forgia; si ribadiva dall’altra parte con pesanti martelli fino a formare un’altra capocchia in corrispondenza della prima. Il metallo, che nella fase di riscaldamento si dilatava, lasciato raffreddare dopo la ribaditura, ritornava alle sue dimensioni originarie, serrando gli elementi giustapposti con una forza notevole, come si può facilmente intuire.

L’Ottocento ha restituito all’acciaio una pagina straordinaria nella storia delle tecniche costruttive, un materiale e una tecnologia che permettevano arditezze strutturali prima impensabili. Ma lo stesso Ottocento diede i natali a un’altra tecnica, quella del calcestruzzo armato, grazie anche all’intuizione di un giardiniere parigino che voleva realizzare vasi da fiori in cemento.

Questa tecnica consente di sfruttare, combinandole insieme, le caratteristiche strutturali dei due materiali, di modo che la pietra artificiale, il calcestruzzo, migliora notevolmente le sue prestazioni grazie alla collaborazione di nervature interne in acciaio, opportunamente disposte. Uno dei pionieri nell’applicazione di questa tecnologia, è stato un ingegnere di Ittiri stabilitosi a Torino, cui si deve, tra le altre notevoli cose, lo Stadio di Torino del 1910, il Ponte Risorgimento a Roma del 1911, il progetto strutturale delle Officine Lingotto a Torino di Giacomo Mattè Trucco.

Il calcestruzzo armato, dopo le felici esperienze dei suoi pionieri, è diventato la tecnologia costruttiva più diffusa e di maggiore impiego, lasciando nel tempo capolavori e opere di pregio, ma anche innumerevoli opere che spesso lo hanno reso inviso alla pubblica opinione. Sarà forse questa cattiva fama del calcestruzzo armato che ci porta a trascurare fabbriche notevoli come quella di Santa Caterina, nei pressi di Sant’Antioco?

La Centrale termoelettrica di Santa Caterina. Ai margini del compendio lagunare di Sant’Antioco, uno dei luoghi geografici più interessanti della Sardegna, in un sito dove la linea orizzontale domina fra specchi d’acqua e bassa vegetazione lacustre, stagliata contro il profilo ferrigno delle montagne del Sulcis, in leggero rilevato si erge possente la sagoma della Centrale termoelettrica di Santa Caterina. Vera e propria pietra miliare e porta di un territorio che, negli anni Trenta del secolo passato, aveva individuato nell’industria mineraria la nuova frontiera per il proprio riscatto economico.

Nella previsione di poter coprire un quarto del fabbisogno nazionale di carbone, il bacino del Sulcis diventa l’assoluto protagonista di un’operazione grandiosa, condotta senza risparmio di mezzi, che nel giro di pochi anni avrebbe rivoluzionato il volto di questo ignorato lembo dell’Italia” (R. Martinelli, E. Nurri, Le città di strapaese. La politica di fondazione nel ventennio, Milano 1978). Entrata in attività nel 1939, un anno dopo la fondazione di Carbonia, la centrale riforniva di energia elettrica tutti i centri di nuova fondazione a servizio delle miniere (Carbonia in primo luogo, e poi Cortoghiana, Bacu Abis e i vari nuclei insediativi denominati Littoria). Impiegava come combustibile lo stesso carbone estratto dalle miniere e l’acqua della laguna per il raffreddamento degli impianti.

Il manufatto, pur privilegiando la massa volumetrica della centrale vera e propria con tre corpi di fabbrica a diverse altezze, è abbastanza articolato. Tutto l’insediamento finisce per essere un villaggio, una piccola città fabbrica di sapore ottocentesco. L’edificio principale raggruppa la sala macchine, la sala caldaie, la sala distillatori e la sala quadri, il corpo degli uffici (ai piani alti della sala macchine), la bocca a mare dell’idrovora (canale adduttore e canale di scarico dei condensatori) e la gabbia reticolare delle linee di presa e distribuzione di energia (sottostazione all’aperto o castello degli isolatori).

Poco distanti dal corpo di fabbrica principale troviamo una serie di locali ordinatamente disposti, destinati a depositi, serbatoi per l’acqua potabile, officine e autorimesse. Ai margini del lotto, in successione lungo confine, la foresteria, la casa del guardiano, quelle del capo centrale e dei capiturno, e infine gli alloggi del personale e la mensa: piccoli edifici quasi seminati a spaglio in mezzo al verde, e collegati fra di loro e alla centrale da una strada interna.

La sala della centrale è indubbiamente la parte più significativa del complesso, sia per la suggestiva spazialità interna, che per l’ordine gigante dei suoi affacci all’esterno. Il prospetto a sud-est, verso la strada statale n. 126 che collega l’arcipelago alla terraferma, è indubbiamente il più moderno, con quattro lunghi nastri verticali di finestre (alternati alle fasce piene leggermente incavate, a segnare in facciata gli spazi divisori delle cinque caldaie dell’impianto), che tagliano il grigio tessuto a grana fine dell’intonaco, sollevando i lembi laterali come in una tela di Fontana, e arricchendo così l’imponente campitura della parete (53 metri per 37 di altezza) con sottili vibrazioni del volume, che fanno sembrare l’edificio un organismo vivente, che assume forme diverse nelle diverse ore del giorno declinando la luce in maniera suggestiva.

L’interno è caratterizzato dal profilo della copertura, appoggiata su un’orditura reticolare di esili travi, puntoni e tiranti in calcestruzzo armato di straordinaria snellezza. Gli spazi in quota si possono raggiungere con le grandi scale elicoidali a parapetto cieco che formano due bei nastri in calcestruzzo liscio avvolti a spirale: un invito ad alzare lo sguardo, a cercare in alto la bella trama della struttura del tetto, quasi una volta di guariniana memoria.

Gli affacci degli altri corpi di fabbrica sono risolti in modo più tradizionale, con soluzioni più classicheggianti (coronamenti a frontone, basamenti con partizioni massicce, sottolineatura delle bucature con cornici in rilievo rispetto al profilo murario). Qui entra nel ragionamento l’altro aspetto peculiare di questa grossa fabbrica, l’impiego delle malte di cemento per realizzare la finta pietra: i grossi cantoni di trachite dei basamenti, gli stipiti, le piattabande e i davanzali in travertino delle finestrature e gli altri rivestimenti lapidei sono tutti realizzati in malta di cemento, opportunamente colorata in pasta, con eccellente verosomiglianza con la pietra naturale.

Il cemento e i suoi composti vengono magistralmente impiegati indagando tutte le possibilità costruttive e tecnologiche di questo nuovo materiale e dei suoi derivati, che con la loro grande plasticità permettevano lavorazioni sia strutturali che di finitura fino ad allora possibili solo con materiali eterogenei.

La Centrale di Santa Caterina, oggi inutilizzata e in stato di abbandono, rappresenta, nel panorama del moderno in Sardegna, un interessante momento dell’evoluzione della cultura architettonica. Pur senza una lineare successione cronologica, quest’edificio si colloca a metà strada fra le ultime esperienze eclettiche (che hanno ispirato le forme della Centrale di Santa Gilla a Cagliari del 1924, oggi demolita) e le ambizioni razional-futuriste di Flavio Scano per l’idrovora di Sassu ad Arborea. Indipendentemente dalla qualità architettonica del manufatto, comunque di pregio, assume grande valore il suo segno e la sua presenza importante nel territorio, maestoso avamposto di tutta una regione geografica.

 

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