Il femminicidio di Dina Dore lunedì 14 nella trasmissione “Amore criminale” [di Maria Antonietta Mongiu]

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Lunedì 14 settembre riprende alle 21.05 su Rai3 la trasmissione televisiva Amore criminale. In onda dal 2007, ad oggi somma diciotto edizioni e un crescente riscontro nella pubblica opinione a prova che il servizio pubblico, quando si vuole, agisce la funzione che gli è propria.

Il format della trasmissione si fonda sulla forza dei casi che presentatrici credibili, a cui le donne in primis riconoscono autorità, prospettano nella dimensione testimoniale, usando come veicolo l’io narrante. Oltre alle ricostruzioni con attori professionisti, molteplici le voci interpellate: amici, congiunti, colleghi di lavoro, magistrati, avvocati, poliziotti, carabinieri che collaborano alla ricostruzione del mosaico, il cui nome e cognome è femminicidio ad opera di uomini. Il più delle volte si tratta di compagni, fidanzati, mariti che le vittime hanno forse amato troppo ed in cui, soprattutto, non hanno individuato da subito il loro assassino. Ogni puntata ne tematizza diversi.

La quantità del materiale documentario fa intuire il grande lavoro degli sceneggiatori, la loro passione per una missione, la tensione etica per un obiettivo che è fare pedagogia sociale dei comportamenti violenti di molti uomini, occultati, nel vissuto, da dichiarazioni d’amore e di protezione che celano il senso di dominio e di possesso e il disprezzo per le donne che a decine in Italia continuano a sparire o ad essere uccise. Quanto l’emancipazione e la liberazione delle donne tarda ad affermarsi compiutamente nel nostro paese! Avremmo altrimenti le attuali percentuali di discriminazioni, variamente declinate, e di femminicidi, fisici e psicologici? O i comportamenti omertosi che fanno da quinta ai femminicidi specie a quelli rappresentati come altro?

Nella prima puntata della nuova serie si parlerà della storia di Dina Dore di Gavoi. Un femminicidio orribile quanti altri mai perché consumato davanti alla figlia neonata. Potranno mai i suoi cari superare il dolore pensando a quello provato dalla loro figlia e sorella che subì in vita il calvario di un femminicidio psicologico ad opera di un uomo che la delegittimava e le toglieva ogni giorno dignità fino a toglierle la vita? Quanto indicibile il terrore di Dina che la figlia facesse la stessa fine? C’è un dolore più terribile per una madre?

Carezze di sangue il libro di Maria Francesca Chiappe – che sarà in trasmissione – racconta quel femminicidio. Il libro fu preceduto da una bellissima trasmissione che la giornalista ideò e condusse a Videolina. Fu un serrato e umanissimo dialogo con Graziella, sorella di Dina, che non si diede pace finché non fu arrestato e condannato il responsabile di tanto efferato delitto. Il silenzio calato come una cappa per 5 anni sul delitto e la depistante ipotesi avvalorata dall’assassino che si trattasse di un sequestro finito male sono il filo rosso del libro.

In Sardegna ha avuto un grande successo perché racconta in forme filologiche e asciutte la vicenda giudiziaria. Illumina al contempo il respiro di fondo non tanto e solo di un paese ma di una società. Quella sarda su cui oggi poco o nulla si sta indagando dal punto di vista sociologico e antropologico. Poco o nulla sugli orizzonti culturali su cui fondano le quotidianità le nostre comunità.

La Sardegna di oggi è pietrificata in una dimensione retorica ed etnografica in cui si fa credere che concerti, dibattiti, festival, feste e quant’altro – spesso autoriferiti quanto autoreferenziali ed identici a quelli di qualsiasi altro luogo – scalfiscano sostrati innominabili. In realtà lambiscono appena la superficie e solo per qualche giorno. La dominante è piuttosto una generalizzata perdita di senso.

Interroghiamoci allora qualche volta di più su quello che accade e ci accade. Sottraiamoci al conformismo imperante perché la Sardegna di dentro è forse diversa dalla proiezione che tanti ne danno. E’ una proiezione piccolo borghese e periferica di èlite altrimenti escluse.

Lunedì 14 si parlerà di Dina Dore e di Gavoi. In verità si parlerà di tutti noi che spesso non abbiamo il coraggio di darci voce perché il branco rassicura. Ma nel branco ci sono i lupi che azzannano chi è più fragile ed indifeso. Se la fotografia non sarà quella che vorremmo, sia un motivo di autoriflessione e, finalmente, di autocoscienza. Ce n’è bisogno. Per Dina, per Graziella, per la loro figlia che è anche nostra, per tutti noi.

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